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Arte, fotografia e verità… e poi, un improvviso colpo di vento

del

Usciamo dalla camera distrutta di Sardanapalo. Cerchiamo una presenza umana. C’è un film che abbiamo amato tutti, carinissimo, dove c’è una famosa scena in cui si parla di verità. Penso a Vacanze Romane, del 1953. Là c’è una scena molto famosa dove Audrey Hepburn, che nel film interpreta il ruolo di una principessa fuggita dal rigore del protocollo reale per regalarsi una breve vacanza nella Roma della dolce vita, è spinta da Gregory Peck, giornalista senza troppi scrupoli alla ricerca di uno scoop e che si finge suo amico, a provare la cosiddetta Bocca della Verità.

Si tratta del mascherone di pietra sito nel cortile di Santa Maria in Cosmedin in Roma. La leggenda dice che se chi mette la mano nella bocca di pietra del mascherone sta mentendo, la bocca della verità lo punisce, mordendolo ferocemente. In quella arcinota scena la principessa/Audrey Hepburn è alquanto spaventata e colpita dalla cosa. Siccome gira per Roma in incognito, rifiuta di mettere la mano nella bocca del mascherone, perché sa di mentire. Gregory Peck però la incita a farlo. Anzi, ci prova lui stesso e poi, per spaventarla per gioco, finge di essere morso. Alla fine se ne vanno insieme ridendo divertiti.

Ma l’imbarazzo rimane. Sì perché in realtà, di fronte alla bocca della verità, nessuno dei due personaggi ha la coscienza a posto. La principessa mente, fingendosi una donna qualunque, così come mente il giornalista, che le fa credere di essere interessato a lei, mentre in realtà punta allo scoop. In più, entrambi mentono a loro stessi, non ammettendo di stare sul punto di innamorarsi l’uno dell’altra. Insomma, tutti e due mentono, e tutti e due si mettono alla prova davanti alla bocca della verità.

 

La bocca della verità…

Rivediamo la scena:

Gregory Peck: «La leggenda vuole che se qualcuno mette una mano lì dentro il simulacro gliela morde».

Audrey Hepburn: «Che cosa orrenda!»

G.P.: «Su, avanti, provate!»

Qui c’è uno scambio di sguardi. Lei esita, tocca il mascherone, appena appena e poi tira indietro la mano. Poi dice:

A.H.: «Ora fatelo voi!»

G.P.: «Certo! – risponde lui spavaldo. Ma anche lui mente. Posa la mano, osa spingerla più dentro e poi grida. Dopo lo spavento iniziale lei capisce lo scherzo».

AH: «Imbroglione! Che paura mi avete fatto!»

I due a questo punto ridono, si mettono a giocare e vanno via insieme. L’inquadratura si chiude con un primo piano della bocca della verità, che resta lì, silente, con il suo segreto. La scena è questa. I due mentono entrambi, giocano entrambi con la verità. Lui conduce il gioco, perché conosce la vera identità di lei, mentre lei non sa che lui è un giornalista. Tutto ciò che accade è una recita, un gioco. Eppure, proprio in quel frangente, in cui diverse forme di verità e finzione si sovrappongono, davanti a quell’antico simulacro, nasce un contatto più profondo tra i due. Nasce una magia. Curiosamente, mentre mentono l’uno all’altra, mentono anche a sé stessi, ignorando il reciproco sentimento  nascente. Paradossalmente, possiamo dire che quando i due indossano le loro maschere sono più veri di quando si comportano in modo “socialmente corretto”. La loro verità profonda, l’identità e i sentimenti, alla fine sono altro dal loro personaggio sociale. Proprio la loro bugia permette un incontro che altrimenti sarebbe stato impossibile. Che cosa ci insegna questa storia? Ci dice qualcosa circa la verità, e in particolare la verità nell’arte e nella fotografia? Secondo me sì. Ma che cos’è dunque la verità?

 

 L’accordo, come in musica, e Luigi Ghirri

 

Anche solo voler enumerare tutte le teorie filosofiche e artistiche sull’argomento, e soltanto quelle prodotte da fior di studiosi negli ultimi decenni, sarebbe come compilare una seconda biblioteca di Borges. Un’impresa impossibile e forse inutile. Vero, non vero, post-vero. Ce n’è per tutti i gusti. Baudrillard parlava del simulacro e della fotografia come scrittura della lice. Per lui, e per altri post moderni come lui, la narrazione stravolge e muta la verità stessa nella sua essenza. Per Nietzsche, prima di questi, il mondo vero era già diventato favola  e noi, insieme alla favola, già allora avevamo perso anche il mondo reale. Richard Rorty, scrivendo sul post moderno e sulla filosofia nel mondo della post-modernità hanno teorizzato la fine della verità come corrispondenza della proposizione alla cosa. Ma questo è solo un modo per guardare le cose. Ce n’è un altro?

L’idea che vorrei proporre è che sì, c’è un altro modo di guardare alle cose. E a trovarlo ci aiuta l’arte e in particolare la fotografia. Prendiamo una foto di Luigi Ghirri. Nel lavoro di Ghirri l’artista cerca il punto di equilibrio tra l’interiorità e l’esterno. Il suo obiettivo è portarci a guardare dentro, trovando il punto di incontro tra dentro e fuori. Luigi Ghirri sposta lo sguardo al di dentro, all’interiorità e trova l’accordo tra il dentro e il fuori (si noti che la parola accordo qui può essere intesa anche in senso musicale, cosa di per sé meravigliosa).

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1973. Courtesy: Paola Borgonzoni Ghirri
Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1973. Courtesy: Paola Borgonzoni Ghirri

La verità, sembra dirci Ghirri, non è la corrispondenza della definizione con la cosa, come voleva Cartesio, non soltanto. È piuttosto l’assonanza, la messa in sintonia, musicalmente, di ciò che c’è dentro l’anima umana, con ciò che c’è fuori. La fiction, il racconto, l’arte, dicono la verità per due ragioni. Per prima cosa perché la loro è dichiaratamente una narrazione, e quindi non ha pretesa di verità nel senso immediato e diretto del termine.  Ma poi questa narrazione, a ben guardare, risulta più vera di una semplice descrizione dei fatti perché, mettendo in scena la verità, fa quello che faceva la tragedia per Aristotele: pulisce, ordina, dona senso al racconto delle vicende umane.

Come accade in un’immagine di Luigi Ghirri, nell’opera d’arte si affaccia l’anima, con la sua leggerezza di spirito, e si rivolge all’interiorità. In questo accordo, che non è mera corrispondenza, qualcosa accade. La scena di Vacanze Romane ci dice qualcosa sulla verità. Ci dice che la verità è ciò che è in gioco nel gioco dei due personaggi, molto più di quello che loro consapevolmente agiscono e dicono o dichiarano. Il gioco avviene alle loro spalle, a loro insaputa, in certo modo. Li gioca, e senza stare a scomodare Gadamer, li mette in gioco. E la verità è la posta in gioco. Essa è lì, in un punto d’accordo fuggevole, come un soffio di vento. Eppure presente e viva, inaggirabile, come un sentire che non lascia alcun dubbio.

 

A sudden gust of wind

 

C’è un altro lavoro di Jeff Wall, questa volta ispirato al maestro giapponese Hokusai. S’intitola A sudden gust of wind ed è del 1993. Qui Jeff Wall fa un lavoro simile a quello del Sardanapalo di Delacroix. Riprende il lavoro di Hokusai, il suo senso, l’atmosfera, la geometria della composizione. E poi crea un lavoro, un’immagine del tutto indipendente, ma di enorme forza evocativa. Guardiamo bene il lavoro. Se si fa attenzione si vede che l’opera in oggetto non è neanche propriamente una fotografia, ma un collage di fotografie fotocopiate. Non è una fotografia e non è neppure l’opera di Hokusai. Possiamo dire che qui Jeff Wall mente? Forse. Eppure quel lavoro svela una verità molto profonda. Suggerisce e amplifica un suono che il lavoro originario di Hokusai conteneva in potenza. Qui l’opera trova senso in ciò che essa non è (né una foto né Hokusai). La sua identità si rivela quando noi scopriamo che cosa essa non è.

Un dettaglio di A Sudden Gust of Wind di Katsushika Hokusai
Un dettaglio di A Sudden Gust of Wind di Katsushika Hokusai

Ecco allora che accade come in Vacanze Romane. Ciò che appare evidente è mendace, ciò che appare mendace, o meglio che si nasconde, che non dice tutto e mantiene il segreto, è anche ciò che è più vero. È vero perché parla di noi, delle persone, dei loro sentimenti. Ma è anche più vero perché si offre allo sguardo non per manipolarlo o condurlo in qualche modo, ma per offrirsi al sentire umano, percezione e sentimento. In altre parole le opere di Jeff Wall non vogliono farci credere di essere altro da quello che sono, ma vogliono farci arrivare a scoprire, attraverso un dialogo artistico, che sono altro rispetto a ciò che sembrano. Occorre conoscere il dispositivo di senso, per comprendere l’opera e il suo mistero, o meglio la sua magia.

Le foto usate da chi vuole manipolare invece mascherano senza nascondere e non vogliono essere scoperte. Non si pongono in dialogo in quanto immagini, ma vogliono condurre ad un obiettivo diverso, manipolando chi guarda, mettendolo sotto assedio e poi in scacco chi cade nelle loro trappole. Somigliano a Sardanapalo e la sua corte, tutti presi a godere di una vita di abbondanza inutile, mentre fuori il regno va in frantumi. A differenza di A destroyed room, qui non mancano le presenze umane. E c’è anche un’altra presenza, che è quasi sovrumana. Qui c’è il vento. Un vento subitaneo e leggero, che smuove tutte le cose.

lightsgoingon - Flickr: Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993. Questo file è sotto la licenza CC BY 2.0
lightsgoingon – Flickr: Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993. Questo file è sotto la licenza CC BY 2.0

Là il vento muove l’Eufrate e dal moto delle acque Sardanapalo capisce che è arrivata la fine. Il vento di Hokusai  invece muove tutte le cose. Compare così il mondo fluttuante, immagine che per i giapponesi aveva a che fare con il mondo della sofferenza, con il samsara. In Occidente invece il vento è simbolo dello Spirito Santo. Nella Bibbia si dice che Dio si trova nel vento, o meglio nella brezza leggera.  Quella che quasi non te ne accorgi, quando c’è, che non fa troppo rumore, ma che muove tutte le cose.

C’è qualcosa del vento nella verità dell’arte, così come c’è sempre un punto di incontro tra interno ed esterno. La verità è proprio lì, in quel punto sfuggente che sta nell’incontro tra un esterno e un interno,  sempre nel rispetto del mistero di entrambi. Come dire che la verità si dà solo a patto di rispettare questo mistero, fatto anche di leggere ombre e chiaroscuri, proprio come l’accordo musicale si ode soltanto dove c’è anche un poco di silenzio. In quell’intervallo tra musica e silenzio, chiaro e scuro, stanno le opere d’arte, tutte. E ci dicono di guardare e guardare ancora, guardare meglio, e di non credere mai di aver visto tutto, capito tutto. Perché prima di guardare bisogna sentire, solo così si vede davvero. Invece, dove tutto si mostra senza pietà e senza ombre, nasce la confusione, l’errore o peggio l’inganno. E allora non resta che una camera distrutta, disabitata.

 

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.
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