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Souvenir d’Italie. Saluti da Milano: intervista a Vanni Cuoghi

del

Genovese classe 1966 e milanese di adozione, Vanni (Giovanni) Cuoghi si è diplomato in Decorazione Pittorica presso l’Istituto Statale d’ Arte di Chiavari e in Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, in principio ha lavorato in teatro e per alcune riviste italiane come illustratore. Queste esperienze hanno condizionato il suo lavoro, portandolo a guardare al mondo come ad uno spettacolo sempre nuovo, costruendo diorami e quinte teatrali in ogni opera, ricreando situazioni che partono da elementi del reale e spaziano nel mondo del fantastico.

Un assaggio del suo lavoro è oggi in mostra allo Studio Museo Francesco Messina di Milano, dove la personale The Invisible Sun. La terza dimensione del disegno è aperta al pubblico fino al 21 gennaio 2018. Molte altre sue opere sono in Galleria da Giuseppe Pero, sempre a Milano, e alla Conceptual Gallery di Bergamo, in particolare alcune dalle sue famose serie, i Monolocali ed i Souvenir d’ItalieProject Marta – Monitoring Art Archive, che si occupa di mettere insieme tutte le informazioni utili a conoscere in profondità le opere d’arte, per allestirle, conservarle, trasportarle ed eventualmente restaurarle in maniera corretta e sicura, ha raccolto tecniche e materiali per ognuna di queste tipologie di lavori, e quella che andiamo oggi ad approfondire è Souvenir d’Italie. Saluti da Milano, realizzata nel 2016 ad acquarello su carta.

Benedetta Bodo di Albaretto: Souvenir d’Italie è un lavoro che fa parte di una serie composta da poco più di dieci elementi, ognuno numerato ed intitolato in maniera differente, ma distinto appunto dalla definizione di Souvenir d’Italie. Venendo tu dalla scenografia, anche questa serie, come i Monolocali, ha caratteristiche molto teatrali. Come si lega questo progetto al tuo percorso artistico?

Vanni Cuoghi: «Si tratta di piccoli diorama a quinte, e prevedono un’idea di cartolina legata all’idillio del paesaggio italiano, per questo sul fondo del teatrino c’è sempre un’immagine storica dell’Italia, una vera cartolina, oppure un’acquaforte…i personaggi che predispongo dialogano con l’immagine di fondo, l’effetto finale sembra un piccolo trompe d’oeil. Prediligo le fotografie in bianco e nero, davanti a queste sviluppo piccole scene che raccontano piccole storie. Tutto il lavoro parte da una considerazione, dal detto “un tempo qui era tutta campagna”, che associo ad una visione idilliaca dei monumenti italiani, una visione da turista e per questo incorniciata in giardini e popolati da piccole damine e personaggi. Le figurine non sempre compiono azioni eclatanti o degne di nota. Di tanto in tanto qualche accenno a situazioni o particolarità c’è, ma ad esempio nel caso di Souvenir d’Italie. Saluti da Milano ho rappresentato il parco Sempione con il castello Sforzesco sullo sfondo, per cui non potevo non inserire gente che suona i bonghi e fuma marijuana… sono piccoli scherzi, divertissement».

B.B.: I Souvenir d’Italie sono nati in funzione di un progetto curatoriale oppure si tratta di un percorso indipendente?

V.C.: «In questo caso sono nati da una richiesta specifica fatta l’anno scorso dal MOHA di Los Angeles. Mi era stato chiesto un lavoro inedito in serie per una collettiva, ed ognuna delle mie opere doveva stare dentro una teca di plexiglass di una certa dimensione – quella che contiene le palle da basket collezionate dagli americani. Mi sono messo a pensare, a studiare quale tipo di opera poteva andare bene per una commissione del genere. Anche se poi non ci siamo messi d’accordo per ragioni logistiche e legali (ndr spedizione e dogana) ne è nata la serie Souvenir d’Italie, studiata per essere compressa all’interno di una cassa e poi riaperta per inserimento in teca».

Vanni Cuoghi, Souvenir d’Italie. Saluti da Milano, 2016, china e collage su carta cm20x20x20. Vista dall'alto.
Vanni Cuoghi, Souvenir d’Italie. Saluti da Milano, 2016, china e collage su carta cm20x20x20. Vista dall’alto.

B.B.: Sei solito raccogliere ed archiviare immagini da cui comincia la ricerca per i tuoi lavori. Realizzi progetti, disegni preparatori, bozzetti prima dell’opera finale? In generale, questo è materiale che conservi una volta terminata l’opera, magari ti può essere utile per nuovi lavori?

V.C.: «Non progetto né realizzo bozzetti per questo genere di lavori. I personaggi vengono fuori e si armonizzano man mano, magari una quinta la immagino in primo piano e poi la retrocedo perché funziona meglio dietro, però sono spostamenti minimi. Il sottotitolo è legato alla città che si identifica nel boccascena, vecchie cartoline che ritrovo nelle mie ricerche».

B.B.: Come lavori abitualmente? Ti capita di avvalerti anche del supporto di maestranze specializzate, oppure il tuo è un lavoro in prima persona?

V.C.: «Dipende, la mia assistente spesso lavora in autonomia, decidiamo insieme l’ambientazione e poi lei costruisce gli spazi, io mi occupo dei soggetti e di alcuni dettagli, di qualcosa di particolare all’interno della scena stessa. Hanno tutti delle caratteristiche peculiari. Lei ormai lavora per me da un anno, è una pittrice, conosce molto bene il mio lavoro e dunque mi fido di come procede. Non è la prima persona che lavora per me, la prima assistente è arrivata nel 2008 e l’ho fatta impazzire, pretendevo che dipingesse esattamente come me. Finchè non mi sono accorto della sua bravura come decoratrice – il suo mestiere – e non ho capito che potevo far sì che il suo talento con i dettagli e la sua perizia arricchissero il mio lavoro. Di quel periodo ricordo le damine con sontuosi vestiti barocchi, carichi di disegni e particolari che realizzava lei, divertendosi. Mi ha ispirato le vite del Vasari, ho capito che Raffaello era stato capace di comporre una factory incredibile perché ogni artista che lavorava per lui aveva una grande, specifica, capacità e lui la sfruttava – in senso buono. Ho iniziato a fare la stessa cosa con le ragazze che hanno lavorato con me, lei per esempio ha una grande abilità per i dettagli minuziosi e nel riprodurre gli animali. I lavori aperti di solito sono contemporaneamente tre o quattro, la gestione dipende da lei, può dedicarsi esclusivamente ad una scena oppure, sempre per non annoiarsi, occuparsi di vari dettagli per volta».

B.B.: Molti artisti integrano nella loro opera il concetto di temporalità, di effimero. In questo caso, quanto è importante la testimonianza del passaggio del tempo sull’opera nei tuoi lavori?

V.C.: «Il mio lavoro è un equilibrio di elementi, ma non sarebbe difficile ripristinare delle figurine che si staccano. Se il passare del tempo facesse ingiallire le carte, considerando che il tempo è la pelle delle cose, si può accettare, se non lede la leggibilità della scena. Penso ai presepi liguri fatti con delle sagome di cartone dipinte a tempera e ritagliate. Se si sono salvate loro, spero che vada bene anche a me».

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