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A proposito della 58ma Biennale di Venezia

del

Il 16 luglio scorso a Ca’ Giustinian è stata presentata la 58ma Edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, che si svolgerà dall’11 maggio al 24 novembre del 2019, con i consueti tre giorni di preview a iniziare dall’8 maggio.

Il curatore della prossima edizione della Biennale, come è noto, sarà l’americano Ralph Rugoff, 61 anni, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra (galleria pubblica all’interno del Southbank Centre) e, precedentemente, del CCA Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco, nonché direttore artistico della XIII Biennale di Lione nel 2015; in Italia era approdata nel 2007 al Castello di Rivoli la collettiva da lui curata The Painting of Modern Life. Non è facile focalizzare precisamente l’orientamento di questo critico che, nella sua carriera, si è occupato di artisti come Ed Ruscha, Paul McCarthy, Mike Kelley, David Hammons, Carsten Höller, George Condo, Andreas Gursky, nonché di videoarte e video-installazioni: evidente l’interesse per il corpo umano e le sue trasformazioni nella visione artistica contemporanea, come pure per il dialogo tra le arti visive e gli ambienti architettonici e urbanistici, con connotazioni socio- e tecnologiche.

La futura edizione della Biennale, dal titolo May You Live in Interesting Times, succede a quella curata nel 2015 da Okwui Enwezor, All the World’s Futures, dalla forte connotazione politica e terzomondista, accolta da pareri contrastanti ma sicuramente con un’idea “forte” e ben perseguita alla base, e a Viva Arte Viva dello scorso anno firmata da Christine Macel, generalmente apprezzata e di grande successo di pubblico, ma a mio parere alquanto irrisolta.

Come ha dichiarato lo stesso Rugoff nella presentazione di Ca’ Giustinian, il titolo scelto per l’Esposizione del 2019 proviene dalla citazione fatta dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain, in un discorso tenuto alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, di un curioso anatema cinese che recita: “Che tu possa vivere in tempi interessanti”. Chamberlain chiosava: «Non vi è alcun dubbio che la maledizione sia ricaduta su di noi. Passiamo da una crisi all’altra, in un susseguirsi di traumi e disordini». Prosegue Rugoff: «Questa breve storia suona oggi incredibilmente familiare, in tempi in cui i notiziari annunciano una crisi dopo l’altra. Ma in un’epoca nella quale la diffusione digitale di fake news e di “fatti alternativi” corrode il dibattito politico e la fiducia su cui esso si fonda, vale la pena sostare, ogniqualvolta sia possibile, e rimettere in discussione i nostri punti di riferimento. (…) May You Live in Interesting Times includerà senza dubbio opere d’arte che riflettano sugli aspetti precari della nostra esistenza attuale, fra i quali le molte minacce alle tradizioni fondanti, alle istituzioni e alle relazioni dell’“ordine postbellico”. Riconosciamo però fin da subito che l’arte non esercita le sue forze nell’ambito della politica. Per esempio, l’arte non può arginare la crescita di movimenti nazionalisti e governi autoritari in diverse parti del mondo, né può alleviare il tragico destino dei profughi in tutto il pianeta (il cui numero ora corrisponde a quasi l’un per cento dell’intera popolazione mondiale)».

Sembrerebbe quindi che la prossima Biennale avrà un orientamento tendenzialmente engagé, ma senza il dichiarato impegno politico dell’edizione di Enwezor. Ma continuiamo a scorrere le dichiarazioni di Rugoff: «Tuttavia in maniera indiretta, forse, l’arte può essere una sorta di guida su come vivere e pensare in questi “tempi interessanti”. La 58ma Esposizione Internazionale d’Arte non avrà un tema di per sé, ma metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte che includa sia il piacere che il pensiero critico». Il che, onestamente, suona un po’ come gettare il sasso e nascondere la mano, oppure coprirsi le spalle non andando fino in fondo su una linea che potrebbe rivelarsi non sufficientemente gradita o accattivante.

«May You Live in Interesting Times cercherà di offrire al suo pubblico un’esperienza estesa del profondo coinvolgimento, trasporto e apprendimento creativo resi possibili dall’arte. Questo implicherà coinvolgere i visitatori in una serie di incontri essenzialmente ludici, perché è quando giochiamo che siamo più compiutamente “umani”. Significherà anche mettere a punto aspetti del format dell’esposizione, ove possibile, per far sì che siano armoniosamente in linea con il carattere dell’arte che verrà presentata. (…) La Mostra si proporrà di sottolineare l’idea che il significato delle opere d’arte non risiede tanto negli oggetti quanto nel dialogo — prima fra l’artista e l’opera, poi fra l’opera e il pubblico, e infine fra pubblici diversi. Alla fine, la Biennale Arte 2019 aspira a questo ideale: ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto, ma come il pubblico possa poi servirsi dell’esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie. Una mostra dovrebbe aprire gli occhi delle persone a modi inesplorati di essere al mondo, cambiando così la loro visione di quel mondo».

Mi sembra una lista di considerazioni piuttosto scontate, con una deliberata vaghezza che in realtà non lascia trasparire nulla sulla struttura e l’impostazione della mostra principale. È anche chiaro che si sta attenti a non fare troppe anticipazioni, a non creare aspettative precise che potrebbero andare deluse; come pure, probabilmente, bisogna fare i conti col non avere ancora in mano grandi sicurezze sulle varie presenze e partecipazioni (all fin fine manca ancora un anno all’inaugurazione…). La speranza è, soprattutto, che l’autonomia di scelta del curatore riesca per quanto possibile a scavalcare le interferenze di gallerie potenti e trendsetting, perseguendo un disegno lucido senza cedere a troppi compromessi (un’utopia?): in fondo il senso di queste kermesse artistiche dovrebbe essere quello di proporre una precisa — ancorché inevitabilmente parziale — visione delle tendenze attuali dell’arte (altrimenti c’è da dare ragione a coloro che criticano la sterile visibilità fine a se stessa dei curatori…).

Sarà interessante vedere, man mano, anche l’elenco di curatori e artisti dei vari padiglioni nazionali. Per quanto riguarda l’Italia, la nomina di Milovan Farronato ha scatenato la ben nota bagarre che non merita ulteriore pubblicità. Sulla carta, comunque, Farronato ha già segnato un punto a suo favore: gli artisti invitati dovrebbero essere tre e in qualche modo collaborare tra loro — un’idea intelligente per riprendere la riuscitissima formula di Cecilia Alemani dell’anno passato, salvaguardando un margine di originalità.

Sandro Naglia
Sandro Naglia
Nato nel 1965, Sandro Naglia è musicista di professione e collezionista d’arte con un interesse spiccato per gli astrattisti italiani nati nei primi decenni del Novecento e per quelle correnti in qualche modo legate al Pop in senso lato (Scuola di Piazza del Popolo, Nouveau Réalisme ecc.).
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