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Bid for the Louvre: 80mila € per un tête-à-tête con la Gioconda

del

Si è svolta a ridosso di Natale l’incredibile asta “Bid for the Louvre”, organizzata congiuntamente da Christie’s e Hôtel Druot, che ha raccolto oltre 2 milioni di euro destinati al finanziamento del progetto “Louvre Museum Studio”, un nuovo grande atelier educativo annesso al museo.

Il filo conduttore di tutta l’operazione era evidente: sostenere l’istituzione attraverso la vendita dell’esperienza di lusso, il marchio altisonante, l’esclusività.

Il lotto più discusso, per cui sembrano essere stati sborsati ben 80mila euro, riguardava la possibilità di effettuare un “condition report”, ovvero un sopralluogo per valutare lo stato di conservazione di un’opera d’arte, o meglio dell’opera d’arte per eccellenza del museo parigino: la Gioconda di Leonardo.

In poche parole si poteva stare a tu per tu con la mitica Monna Lisa senza il filtro della teca, la distanza esorbitante e la calca che ne caratterizzano normalmente la fruizione.

Qualche mese fa, ho acquistato su Maremagnum una vecchia copia di No Logo, il grandioso saggio del 2000 di Naomi Klein, considerato più o meno a senso – citando la copertina – “la bibbia del movimento No Global”.

Il succo di questo interessantissimo volume è che, all’inizio del secolo corrente, l’economia capitalista ha vigorosamente virato verso la monopolizzazione assoluta del mercato e la distruzione della concorrenza tramite la costruzione di uno storytelling efficace attorno al proprio marchio – “brand” – che attribuisse ad esso valori immateriali condivisi, a discapito dei valori materiali, ossia della fase produttiva.

Così facendo il capitalismo della produzione lasciava definitivamente spazio al capitalismo del brand e di tutta la sfera emozionale ad esso legato.

Sono passati vent’anni da allora e questo modello, inizialmente adottato nel marketing dei prodotti, ha oggi raggiunto anche a quello dei servizi, e di riflesso, quello della cultura.

Il “branding” museale è una complessa disciplina oggi studiatissima nelle scuole di management della cultura, e a buon ragione: i musei e le istituzioni culturali devono lottare per emergere in un mondo tirannicamente monopolizzato da pochissimi giganti, che in virtù delle loro risorse riescono a dettare le regole del gioco.

Mentre ci ragiono, leggo l’articolo di Tomaso Montanari su Il Fatto Quotidiano del 21/12. Da una posizione decisamente più autorevole della mia, il professor Montanari esprime un giudizio molto duro su “l’affaire Louvre”, evocando le manifestazioni-scontro che ormai da un paio d’anni – ossia dall’ascesa del discusso governo di Emmanuel Macron, eletto a suo tempo più per arginare il populismo di Le Pen che per meriti propri – animano i larghi boulevards parigini. Riporto il suo pensiero:

«I miserabili delle banlieues che di tanto in tanto devastano i negozi del centro di Parigi, da oggi hanno una ragione in più per associare la Gioconda a quei marchi che a ragione sentono come nemici. Il Louvre ha scelto da che parte stare: anche se da quella parte i posti erano già tutti occupati».

Può il valore immateriale del brand superare ogni altro valore, sia estetico che di gusto personale?

Riflettevo con me stesso sulla possibilità che un degno museo di “provincia” come la Pinacoteca di Bologna offrisse – in un’operazione simile a quella messa in atto dal Louvre di Parigi – la possibilità di assistere a un’operazione per chi la compie piuttosto abitudinaria (parlo da restauratore) come un condition report sul capolavoro maggiore che custodisce nelle sue sale: la Santa Cecilia di Raffaello.

Dubito che la cifra massima per cui si troverebbe qualcuno disposto ad aprire il portafoglio potrebbe superare i due zeri. Eppure la Santa Cecilia ha un valore estetico, artistico, storico quanto meno al livello di quello della Monna Lisa di Leonardo.

La saggezza dei vecchi, a volte, dipana ogni matassa: si diceva che non è bello quel che è bello, ma ciò che piace. Forse la Santa Cecilia è bella, ma la Gioconda piace, o forse piace il valore che ci è stato raccontato e come ci è stato raccontato. Omen nomen: un nome, un destino. E il cerchio si chiude.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.
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