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Colore. Una Biografia

del

«I colori insolitamente trattenuti… seguono una cadenza molto ravvicinata: toni rossicci nella figura centrale ruotano attorno a rossi rame, bruni e carminio brillante; ricche e delicate sfumature di grigi nella figura in piedi a destra: luminoso blu-grigio argenteo, grigio tortora, grigi blu e turchesi… il tono definibile con difficoltà di bruno cangiante del campo alla media distanza assume un agile tono rosa violetto contro i vari toni di grigio dell’immagine sullo sfondo, riecheggiato nel primo piano leggermente oscurato…».

È la descrizione che il critico Lorenz Dittmann fa del celebre quadro Le spigolatrici di Jean-François Millet. Ed è anche il punto di partenza del libro Colore. Una biografia di Philip Ball.

Ecco un testo che tutti gli appassionati d’arte — e tanto più gli storici e i critici — dovrebbero leggere. Pubblicato originalmente nel 2001 (tit. orig.: Bright Earth. The Invention of Colour), il libro fu tradotto nello stesso anno per Rizzoli da Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini; nel 2017 la casa editrice ne ha fatto una riedizione (la tredicesima) nella collana BUR. Philip Ball (1962) è un chimico e fisico inglese, per più di vent’anni editor della rivista “Nature” e grande divulgatore scientifico (suoi anche H2O. Una biografia dell’acqua e L’istinto musicale. Come e perché abbiamo la musica dentro), oltre che appassionato d’arte.

La copertina dell’edizione inglese di Colore: Una Biografia

A partire dagli albori della Storia, l’autore traccia una sorta di storia della pittura vista esclusivamente attraverso l’uso, la disponibilità e la creazione dei colori che costituiscono la materia prima del lavoro del pittore. Perché, al di là di genio e creatività, è il medium tecnico che influenza, e non poco, la produzione artistica — ovvero, detto in soldoni: se non c’è possibilità tecnica di realizzare un’idea, l’idea rimane almeno parzialmente inespressa. Ma vale anche il contrario: c’è chi è andato in cerca di qualcosa di nuovo proprio per dare sostanza alla propria ispirazione o poetica — celebre il caso di Yves Klein, che nel 1960 brevettò un nuovo tipo di blu (l’International Klein Blue) per ottenere un oltremare che mantenesse l’intensità del pigmento puro anche se mescolato con un legante.

«La magia emotiva del colore era svanita. Ogni singolo granello di polvere sembrava  essere annientato dalla colla o da qualsiasi altro materiale destinato a fissarlo agli altri e al supporto», è scritto in un inedito del 1957 conservato negli Yves Klein Archives: l’artista, in collaborazione col produttore di materiali per Belle Arti parigino Edouard Adam, iniziò così una sperimentazione che, partendo da una resina fissativa prodotta da un’industria chimica, arrivò anni dopo alla creazione dell’IKB. «Si potrebbe dire che il brevetto fosse parte integrante della sua arte», chiosa Ball. D’altra parte, il dripping di Pollock fu reso possibile da vernici i cui leganti, agglutinanti sintetici, conferivano loro una liquidità inimmaginabile qualche decennio prima.

È ancora retaggio, tenacemente radicato, dell’estetica idealista ottocentesca trascurare il lato tecnico, o comunque porlo in secondo piano rispetto alla cosiddetta “ispirazione” dell’artista. Secondo Anthea Callen, citata nel libro: «Le persone che scrivono d’arte trascurano spesso il lato pratico dell’oggetto del loro studio, concentrandosi soltanto sulle qualità stilistiche, letterarie o formali nel loro discutere di pittura. (…) Ogni opera d’arte è determinata in primo luogo e soprattutto dai materiali a disposizione dell’artista e dall’abilità di questi nel manipolarli. Così, solo tenendo ben presenti i limiti imposti a un artista da tali materiali e dalle condizioni sociali in cui egli opera, le caratteristiche estetiche e il posto dell’arte nella storia possono essere compresi in maniera corretta».

Philip Ball

Al giorno d’oggi, poi, la “vecchia” tecnica è spesso vista con sospetto anche sull’altro versante, quello degli artisti stessi, fino al paradosso di chi, nelle scuole d’arte, va insegnando che l’artista non deve sporcarsi le mani, ma affidare le sue semplici idee a tecnici che le realizzino materialmente — Jeff Koons ha fatto scuola —, il che ha aperto la porta al dilettantismo più selvaggio, visto che poi molti aspiranti o sedicenti artisti mancano anche di genialità oltreché, talvolta, di una solida cultura nelle stesse arti figurative.

«Il colore di una sostanza può essere generato dall’assorbimento della luce, fenomeno regolato dalle frequenze di risonanza dei materiali. (…) La vibrazione risonante assorbe l’energia della luce a quella frequenza, e quindi strappa via un colore particolare dallo spettro della luce; i raggi le cui frequenze non corrispondono a una frequenza risonante del materiale lo attraversano (se il materiale è trasparente o traslucido) o vengono riflessi (se è opaco). Solo questi raggi “respinti” raggiungono l’occhio umano. Così, paradossalmente, è sulla base delle frequenze di questi raggi — lo loro posizione nello spettro visibile — che attribuiamo un colore a un materiale. (…) Non tutti i colori, però, vengono generati in questo modo; l’arco variegato dell’arcobaleno, per esempio, non è causato dall’assorbimento di luce da parte delle gocce di pioggia, ma dalla rifrazione: raggi di differenti lunghezze d’onda piegati ad angoli diversi. Questo è un esempio di diffusione della luce, che è il principale modo fisico in cui si può produrre il colore; l’assorbimento della luce, al contrario, dipende dalla composizione chimica della sostanza. (…) I pigmenti naturali acquistano i loro colori assorbendo la luce. Ma in natura alcuni colori sono il risultato di processi fisici di diffusione; in particolar modo nessun vertebrato contiene pigmenti azzurri: il blu che esibisce è prodotto dalla diffusione della luce. (…) I metalli di transizione forniscono colore perché i loro ioni tendono ad avere transizioni elettroniche le cui frequenze risonanti rientrano nella gamma della luce visibile. (…) Gli ioni di rame, per esempio, in genere assorbono la parte rossa dello spettro, e quindi i sali di rame appaiono verde-azzurri».

Da queste premesse fisico-chimiche inizia il viaggio nella storia del reperimento e della produzione di pigmenti e composti che fornissero la materia colorata per dipingere (o anche solo per tingere: spesso è dall’ambito delle tinture ad uso industriale che certi colori sono poi passati nelle Belle Arti). Il discorso tocca da subito l’ambito sociologico: dipingere con i colori che si hanno a disposizione significa anche entrare in un discorso economico, che riguarda tanto la committenza quanto la realizzazione.

Jan Vermeer, Fanciulla con cappello rosso, 1655. Olio su tavola, 22,8×18 cm. Il rosso utilizzato per il cappello è il “Vermiglione”.

Due casi principe: il vermiglione — la cui sintesi è considerata da Daniel Thompson come l’innovazione tecnologica più importante della pittura medievale: «Se il Medioevo non avesse posseduto questo rosso brillante, difficilmente avrebbe potuto sviluppare i suoi alti standard cromatici» —, originalmente ottenuto con un laborioso procedimento chimico a partire dalla combinazione di zolfo e mercurio, ebbe fino alle porte del Rinascimento costo altissimo, non lontano da quello dell’oro. Il blu oltremare, d’altro canto, deriva dal lapislazzuli, minerale che veniva importato nell’Europa tardomedievale dall’Oriente, soprattutto dall’Afghanistan, donde poi il nome del pigmento: “principe” dei blu, nei contratti stipulati all’epoca tra committente e pittore risultava essere considerato il massimo del lusso.

Tuttavia, con l’avvento della pittura a olio nel corso del Quattrocento, entrambi questi pigmenti dovettero necessariamente affrontare aggiustamenti e nuove combinazioni: l’indice di rifrazione degli oli è infatti diverso da quello del tuorlo d’uovo precedentemente utilizzato come agglutinante, il che comporta variazioni cromatiche nella vernice ottenuta. Le possibilità offerte dalla tecnica delle velature cambiò le prospettive riguardo ai pigmenti, alla loro utilizzazione e, di conseguenza, al loro costo.

Nel caso dei verdi, l’avvento degli oli fece declinare l’uso della malachite — che veniva a risultare troppo trasparente — a favore del resinato di rame, ottenuto miscelando il verderame con trementina: usato ampiamente da Giovanni Bellini, Raffaello, Tintoretto e Veronese, è purtroppo una vernice che rischia di scurire, virando al marrone, in tempi relativamente brevi. D’altro canto, l’interesse per i verdi crebbe esponenzialmente man mano che divenne di moda dipingere paesaggi, e da miscele di colori complesse (che pure, col tempo, davano luogo talvolta a cambiamenti cromatici imprevedibili) si arrivò alla creazione di nuove sfumature, come l’emerald green, un verde brillante che nella seconda metà dell’Ottocento conquistò Preraffaelliti e Impressionisti ma che, a causa della presenza di arsenico nella sua composizione chimica, se usato massivamente (come nella decorazione d’interni), era potenzialmente tossico.

«Alla fin fine, ogni pittore sigla il proprio contratto con i colori del suo tempo», sintetizza Ball.

Si può comprendere, quindi, la grande trasformazione avvenuta a partire dalla fine del XVIII secolo, ma sviluppatasi soprattutto dai primi decenni del XIX, quando i colori iniziarono ad essere prodotti con la chimica industriale. Uno dei passaggi migliori del libro è proprio la spiegazione, splendida per la sua chiarezza (Cap. IX, paragrafo “L’influenza della teoria”), delle fasi tramite le quali, nel corso del’Ottocento, si arrivò da una chimica sostanzialmente empirica all’attuale sistemazione teorica che, in base a formule ben precise, permette la produzione e riproduzione delle molecole delle varie sostanze, inclusi i composti organici. È così che, storicamente, si aprirono le porte al «reinventare i colori della natura», come recita il titolo del paragrafo successivo. D’altra parte, questo proliferare di colori per così dire “a portata di mano” comportò il rischio di una sperimentazione azzardata di prodotti che potevano anche non garantire stabilità.

E il tema della stabilità dei colori occupa una parte importante del libro. Quel che vediamo oggi nei quadri dipende dalle alterazioni (o meno) subite dai colori nel tempo, per fattori chimici intrinseci o ambientali. Si è già accennato a come i pigmenti possano reagire in maniera imprevedibile alla loro unione con i diversi leganti, e gli effetti di questa reazione possono manifestarsi in tempi brevissimi, come pure alla lunga distanza. Tutto questo è risaputo, ma sono forse meno noti alcuni dei casi estremi su cui il libro si sofferma.

Joseph Mallord William Turner, Ulysses Deriding Polyphemus, 1865.

Scopriamo ad esempio che William Turner era sovente biasimato, ai suoi tempi, per l’uso di colori troppo accesi: di fronte a Ulysses deriding Polyphemus, del 1829, il critico del “Morning Herald” ebbe a scrivere «Può essere preso come esempio di coloritura impazzita: vermiglione deciso, indaco deciso, e tutti i toni più sfacciati di verde, giallo e porpora si contendono la scena». Fatto salvo il gusto dell’epoca, che prediligeva toni più smorzati, il fatto che ai nostri occhi di oggi in molti quadri di Turner i colori tendano alle terre è anche un effetto della smania di sperimentare nuovi prodotti da parte del pittore inglese: «Turner si buttava sui nuovi pigmenti quasi alla velocità con cui i chimici li sfornavano. (…) Questo modo di comportarsi faceva certamente rischiare il disastro. (…) Entro la fine del XIX secolo parecchie opere di Turner erano già in cattivo stato», scrive Ball. Nel 1857 John Ruskin deplorava il fatto che Approach to Venice, dipinto solo tredici anni prima, fosse diventato «un misero relitto di colori morti».

Per venire a un ambito più vicino a noi, Mark Rothko — incredibile dictu — pare nutrisse un’indifferenza sventata per la qualità delle vernici da lui usate con tanta perizia, e l’esempio più sfortunato di questo suo atteggiamento è costituito dagli Harvard Murals. Realizzati nel 1962 e donati all’Università di Harvard, nel giro di cinque anni iniziarono a deteriorarsi, finché nel 1979, ormai rovinati, furono rimossi: le tre opere (due pannelli e un trittico) avevano come colori predominanti il rosa chiaro e il cremisi, mentre oggi appaiono di un pallido azzurro.

La causa è probabilmente da ricercarsi nel rosso lithol presente nella mescola dei colori: estremamente sensibile alla luce — e oggi bandito dai composti per le Belle Arti — sbiadì rapidamente alterando tutti gli equilibri cromatici. Nel 2014 gli Harvard Art Museums hanno presentato una mostra in cui i Murals venivano restituiti alla loro apparenza originale tramite un apparecchio di proiezione che — grazie a un software elaborato da un team di storici dell’arte, restauratori e tecnici informatici — riportava i colori al loro stato originario basandosi su diapositive scattate nel 1964 e a loro volta restaurate digitalmente. Ogni giorno, in un orario preciso, i proiettori venivano spenti rivelando così lo stato attuale delle opere.

Gli Harvard Murals di Rothko

Sono molti altri i passaggi illuminanti di questo libro. Il Cap. XIII, ad esempio, traccia un’interessante (e plausibilissima) linea evolutiva che dall’Impressionismo passa al Fauvismo e poi a Cubismo e Espressionismo, vista sotto l’ottica puramente tecnica dell’uso e della concezione del colore. Non manca un capitolo dedicato alle riproduzioni dei quadri e ai loro limiti, con un esauriente excursus sulla storia delle tecniche di stampa, nonché sul passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale fino alle elaborazioni computerizzate, sempre con spiegazioni tecniche molto precise ma scritte in maniera accessibile.

L’arco temporale del libro arriva a considerare l’utilizzazione dei colori industriali del XX secolo da parte di artisti come Roy Lichtenstein, Sol LeWitt e Frank Stella. Evidente, da parte dell’autore, lo scetticismo nei confronti delle tendenze dell’arte tardonovecentesca che si allontanano dalla pratica della pittura, anche se non mancano accenni all’utilizzazione dei colori in opere contemporanee non propriamente pittoriche. Si tratta, in definitiva, di un libro utilissimo, che fornisce strumenti critici alternativi (rispetto al mainstream corrente) ma fondamentali a chi voglia accostarsi consapevolmente alla pittura.

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Titolo: Colore. Una biografia

Autore: Philip Ball

Editore: Rizzoli

Collana: BUR

Nr. Pagine: 424

Data: 2001, 2017¹³

Prezzo di copertina: 13,00 €

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Sandro Naglia
Sandro Naglia
Nato nel 1965, Sandro Naglia è musicista di professione e collezionista d’arte con un interesse spiccato per gli astrattisti italiani nati nei primi decenni del Novecento e per quelle correnti in qualche modo legate al Pop in senso lato (Scuola di Piazza del Popolo, Nouveau Réalisme ecc.).
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