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Conservare l’arte contemporanea: intervista a Isabella Villafranca Soissons

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Per secoli, nella produzione artistica, metodologie e materiali codificati da numerosi manuali, sono rimasti immutati. A partire dal XX secolo gli artisti, invece, iniziano a utilizzare una varietà infinità di materiali non tradizionali, assemblandoli, a volte arditamente, per mezzo di una vastissima scelta di linguaggi espressivi e con un intento spesso provocatorio e polemico nei confronti della tradizione. Ma anche lanciando un’importante sfida a chi si occupa, oggi, di restaurare queste opere, ma anche a coloro che le conservano e le espongono nelle proprie abitazioni. Sì, perché come sanno bene molti collezionisti, le materie del contemporaneo si usurano, arrugginiscono, ammuffiscono, scoloriscono, fermentano, vengono infestate da insetti, si spengono, si essiccano. Per saperne di più, ne abbiamo parlato con  Isabella Villafranca Soissons, direttore del Dipartimento di Conservazione e Restauro di Open Care – Servizi per l’Arte e curatrice del volume In opera. Conservare e restaurare l’arte contemporanea edito da Marsilio.

Nicola Maggi: L’arte contemporanea si fa con tutto, ma questo “tutto” che sfida lancia al mondo del restauro?

Isabella Villafranca Soissons: «Sfide interessanti e stimolanti che richiedono continui studi e aggiornamenti; ogni singolo intervento costituisce un unicum irripetibile. I materiali del contemporaneo sono moltissimi: prodotti seriali, pane, fagioli, lattuga, sangue, escrementi, immondizia, semi, foglie, ingranaggi in movimento, luci, profumi, solo per citarne alcuni. Questi si usurano, arrugginiscono, ammuffiscono, fermentano, vengono infestati, si spengono, si “incriccano”; la plastica, ad esempio, il materiale della modernità per eccellenza, si pensava durasse per sempre ed invece si è scoperto che è soggetta a deperimento fisico e chimico e può essere attaccata da batteri e muffe. La deperibilità dei materiali impiegati viene spesso sottovalutata, se non addirittura ricercata. L’ intervento del restauratore risulta particolarmente delicato, problematico e sperimentale e, oltre un’ottima manualità, viene richiesto un grande sforzo di creatività, conoscenze scientifiche e non solo».

La copertina di In opera Conservare e restaurare l'arte contemporanea, a cura di Isabella Villafranca Soissons, Marsilio editore (2015).
La copertina di In opera. Conservare e restaurare l’arte contemporanea, a cura di Isabella Villafranca Soissons, Marsilio editore (2015).

N.M.: Per il contemporaneo, meglio parlare di conservatore o di restauratore? Cosa rende diverse queste due figure?

I.V.S.: «Personalmente, considerata la pluralità dei campi e le innumerevoli variabili in gioco, ritengo sia più completo utilizzare il sostantivo CONSERVATORE, nell’accezione anglosassone del termine. Molte volte si tratta di non restaurare del tutto ma di progettare e procedere esclusivamente a operazioni di conservazione ordinaria o straordinaria. L’apoteosi si raggiunge quando si deve intervenire su un’opera che ha in nuce il concetto di implosione o quando le conoscenze scientifiche attuali non permettono di ottenere risultati: in questo caso il restauratore/conservatore deve astenersi dall’intervenire».

N.M.: Anche se non è più il “proprietario”, l’artista mantiene molti diritti per quanto riguarda la “vita” di una sua opera. Quale deve essere il suo coinvolgimento/ruolo nei processi di conservazione e di restauro?

I.V.S.: «Secondo il diritto Europeo, la figura dell’artista è più tutelata di quella del proprietario; compito del conservatore è molte volte quello di “mediatore” tra i due soggetti. L’artista ha il diritto di disconoscere un’opera che ritiene non ben conservata oppure restaurata in modo non idoneo e che quindi possa ledere il proprio onore o la sua reputazione. D’altra parte, come ha osservato Michele Cordaro, affidarsi all’artista per porre rimedio ai danni subiti da una sua opera è una strada che il più delle volte si è rivelata disastrosa, a cominciare dalla errata scelta dei materiali da utilizzare per l’intervento. Inoltre, tale atteggiamento è totalmente in antitesi con i principi di restauro; non sono stati rari gli esempi in cui, a distanza di alcuni anni, l’artista sia caduto nella tentazione di modificare o rielaborare la propria creatura secondo il suo percorso evolutivo. Ha fatto scalpore il caso di un’opera della Sterback appartenente ad un museo Canadese che, in seguito ad una serie di modifiche avvenute negli anni, l’artista stessa ha disconosciuto. È quindi auspicabile che, al termine dell’atto compositivo, il maestro rilasci una sorta di documento che guidi la mano del restauratore e nel quale sia indicato la liceità dell’ azione di restauro ed il grado di intervento».

Dettaglio di un’opera di Agostino Bonalumi durante l’intervento di conservazione nel Laboratorio Open Care
Dettaglio di un’opera di Agostino Bonalumi durante l’intervento di conservazione nel Laboratorio Open Care

N.M.: Nel caso in cui l’artista non sia più in vita, gli eredi e/o le Fondazioni che ne tutelano l’opera come possono interagire in queste operazioni?

I.V.S.: «Quando l’artista ha demandato la tutela della propria immagine o quando non è più in vita, il conservatore ha il dovere di confrontarsi con le Fondazioni, con gli archivi, con gli eredi o con altre fonti affinché venga tutelata la sua volontà. Tali soggetti hanno la medesima facoltà di disconoscere un’opera che ritengono non restaurata in modo idoneo oppure, al contrario, eccessivamente trascurata».

N.M.: Se è vero che prevenire è sempre meglio che curare, quali consigli darebbe ad un collezionista privato per conservare in modo adeguato le proprie opere esposte in casa?

I.V.S.: «L’atto conservativo inizia al momento dell’acquisto con il rilascio dei documenti di autentica. Inoltre le abitazioni, come anche gli studi professionali, non sono luoghi nei quali si possono rispettare parametri termo igrometrici museali. Tuttavia, sono i piccoli accorgimenti, le piccole azioni, che negli anni possono fare la differenza. Ciò che è sempre più richiesto dai collezionisti è il monitoraggio delle proprie opere, in genere con cadenza semestrale, per controllare ed arginare i problemi conservativi non appena si manifestano; anche la semplice polvere, in condizioni particolari, può innescare la proliferazione di muffe e batteri persino sulle plastiche».

N.M: E nel caso di opere destinate ad uno spazio aperto?

I.V.S.: «L’approccio è il medesimo, con l’inserimento di una variabile in più: il contesto naturale che deve essere mantenuto il più simile possibile a quello scelto dall’artista per far dialogare la sua opera con l’ ambiente medesimo; tutto ciò sempre assecondando la volontà dell’autore. Ricordo il racconto di un grandissimo collezionista che nel suo meraviglioso parco possedeva un’opera di Staccioli: la parete esposta a nord era prevista ricoprirsi di muschio nel tempo ma un restauratore alquanto “disinvolto” aveva proposto di ripulire l’opera dal manto verde».

Dettaglio di un’opera di Alberto Biasi durante l’intervento di conservazione nel Laboratorio Open Care
Dettaglio di un’opera di Alberto Biasi durante l’intervento di conservazione nel Laboratorio Open Care

N.M.: Quando si acquistano opere sul mercato secondario non è detto che queste siano in un perfetto stato di conservazione. Prima di procedere con l’acquisto e, successivamente, ad un eventuale restauro, quali valutazioni deve fare un collezionista?

I.V.S.: «Quando si acquistano opere sul mercato secondario non si può avere la garanzia che siano state idoneamente conservate e non siano state restaurate in modo “pesante”; il consiglio è quello di consultarsi con il proprio restauratore di fiducia prima dell’acquisto. Molte volte mi è capitato di intraprendere lunghi viaggi per accompagnare i miei clienti e rassicurarli o sconsigliarli su eventuali acquisti. In genere questi sono momenti indimenticabili perché viene condivisa la medesima bruciante passione per l’arte, anche se da due prospettive, ahimè, assai diverse!».

N.M.: Che servizi offre Open Care ai collezionisti privati sul fronte della conservazione e del restauro delle opere d’arte contemporanea?

I.V.S.: «Open Care potrebbe essere ribattezzata “Full Care”! I servizi offerti sono a tutto tondo e molto comodi per l’organizzazione non solo del singolo ma soprattutto dell’istituzione. Si offrono servizi di storage a parametri igrotermici museali, di art consulting, di trasporti particolarmente attenti, progettati e messi a punto di volta in volta. Per quanto riguarda il dipartimento di restauro, oltre a servizi di controllo periodico e manutenzione svolti in loco, i clienti vengono assistiti nella progettazione e nelle modalità espositive (come ad esempio nella scelta dei corpi illuminanti e di eventuali filtri da apporre alle finestre). Ogni operazione che non sia esclusivamente di manutenzione, ma di restauro, viene condivisa con l’artista o con chi ne tutela l’immagine per condividere gli interventi più idonei, il grado degli stessi e, soprattutto, operare nel modo più etico possibile. Le metodologie di intervento sono all’avanguardia, come i materiali che di volta in volta vengono utilizzati. Mi piace, però, ripensare a quello che l’illustre Prof. Giorgio Bonsanti – parafrasando Kant –  ha scritto nella prefazione del mio libro In opera.Conservare e restaurare l’arte contemporanea: …se la pratica senza la teoria è cieca, la teoria senza la pratica è vuota».

Nicola Maggi
Nicola Maggi
Giornalista professionista e storico della critica d'arte, Nicola Maggi (n. 1975) è l'ideatore e fondatore di Collezione da Tiffany il primo blog italiano dedicato al mercato e al collezionismo d’arte contemporanea. In passato ha collaborato con varie testate di settore per le quali si è occupato di mercato dell'arte e di economia della cultura. Nel 2019 e 2020 ha collaborato al Report “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione” di Deloitte Private. Autore di vari saggi su arte e critica in Italia tra Ottocento e Novecento, ha recentemente pubblicato la guida “Comprare arte” dedicata a chi vuole iniziare a collezionare.
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