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Futuri Culturali: una visione prospettica

del

Definire possibili traiettorie di sviluppo per il futuro della cultura è un compito arduo e, sicuramente, non è possibile stabilire con certezza quali saranno le dinamiche che caratterizzeranno la cultura dei prossimi anni. È tuttavia possibile affermare, senza timore di smentite, ciò che la cultura non sarà. Ad esempio, non si corre pericolo nell’affermare che la cultura non prevederà più convegni noiosi o musei che non sono in grado di interagire con i propri fruitori. Ma cultura non sarà neanche uno studio matto e disperatissimo: l’implementazione del concetto di edutainment, che finora ha trovato concretezza soprattutto sul piano ludico, sarà sempre più rivolta al settore del training e del lifelong learning, processo del resto già avviato attraverso piattaforme quali Coursera (per corsi di stampo accademico) o Busuu (per l’apprendimento social e interattivo delle lingue). Osservando il presente, dunque, è possibile formulare delle ipotesi, intuire più che misurare, quali saranno le modalità attraverso le quali il concetto stesso di cultura subirà le più grandi evoluzioni.

Tra queste, un ruolo sempre più cruciale sarà dato da una visione nuova del concetto di cross-culturalismo: motore del concetto di cultura non saranno quelle tematiche che sinora ne hanno determinato lo sviluppo, ma saranno piuttosto ispirazioni quali tecnologia, ingegneria, urbanistica, medicina e informatica. Questa evidenza è dettata da una duplice constatazione: da un lato, è il concetto stesso di cultura, la cui natura è tanto liquida da impedirne una definizione diretta, dall’altro è, invece, una pragmatica definizione degli indirizzi di policy operati da decisori nazionali e sovranazionali. Basti guardare alle linee di finanziamento che l’Unione Europea ha erogato nel novero dell’FP7, il programma settennale che ha guidato gli investimenti dal 2006 al 2013. Analizzando i dati forniti dalla stessa Unione Europea, è possibile stabilire quale ruolo abbiano avuto le discipline facenti capo alla categoria delle Social Sciences and Humanities (il cui finanziamento massimo ha un ordine di grandezza di circa 120 milioni di euro) rispetto alle erogazioni per sviluppo di progetti legati al mondo delle ICT (in cui le cifre annuali sfiorano invece il miliardo e mezzo di euro).

 

Il mercato dell’arte come possibile alleato

 

La cultura ha bisogno di trovare nuovi canali e questo è vero anche quando prendiamo in considerazione specifici comparti del macrocosmo delle imprese culturali, che invece mostrano livelli di crescita interessanti, come nel caso del mercato dell’arte. Secondo il report Tefaf, nel 2014 il mercato dell’arte ha interessato un giro d’affari pari a circa 51 miliardi di euro, mostrando un trend positivo del 7%. Questo dato, che ha anche suscitato l’interesse dell’opinione pubblica, non si caratterizza per una interpretazione univoca: se guardiamo ad esempio il caso della vendita multimilionaria (179 milioni di dollari) delle Donne d’Algeri di Picasso, la penna del New York Times Neil Irwin sottolinea come una delle possibili ragioni che sottostanno a tale cifra possa essere identificata nella crescente concentrazione di ricchezza. Nel suo precedente passaggio in asta (1997), il dipinto era stato battuto per 129 milioni di dollari, registrando in questo intervallo un aumento nominale del valore di 50 milioni. Tuttavia, ipotizzando che nessun individuo spenda più dell’1% del proprio patrimonio netto per l’acquisto di un’opera d’arte, e confrontando la lista delle persone più facoltose del pianeta, il giornalista mostra che se nel 1997 l’acquirente poteva essere compreso nella lista delle 10 persone più ricche del pianeta, nel 2015 la lista dei possibili compratori sia salita a 50. In questa direzione vanno anche i dati evidenziati dal report di Wealth-X che illustrano come, nel solo 2014, siano più di 5000 le persone che hanno superato la soglia degli UHNWI (Ultra High Net Worth Individuals) vale a dire coloro che dispongono di un patrimonio netto maggiore di 30 milioni di dollari.

Con questa prospettiva dunque, si può anche sospettare che il mercato sia stato sub-performante e, in linea con questa ipotesi, sono anche i dati relativi ai cosiddetti Artfunds. Stando al report Art&Finance di Deloitte, infatti, il numero di fondi speculativi che investono in arte si è notevolmente ridotto nell’ultimo triennio. Non è difficile motivare tale calo: da un lato una attività di maggiore regolazione da parte del mercato cinese, uno dei più proficui sotto questo versante, dall’altro una sempre più percepita mancanza di trasparenza dei meccanismi di determinazione del valore degli oggetti d’arte. Con riferimento a quest’ultimo elemento, in particolare, si può anche notare che la percezione di questa opacità di mercato cresca proporzionalmente al numero di individui che, provenienti da esperienze diverse da quelle del mercato dell’arte, mostrano interesse in questo comparto. Questi soggetti infatti, abituati ad operare in altri contesti e con standard differenti di informazione, si scontrano con dinamiche che in altri settori agiscono seguendo regole più e meglio definite.

Il mercato dell’arte dunque, pur essendo uno dei mercati di punta di ciò che viene comunemente inteso come settore culturale, mostra notevoli debolezze sistemiche: è in questo senso che il concetto di cross-culturalismo può trovare una sua prima immediata applicazione. Le dinamiche legate a questo settore potrebbero essere incrementate, ad esempio, dal recepimento delle istanze provenienti dal settore finanziario. Il mercato finanziario è un sistema molto complesso e ramificato, e discernerne le logiche spesso non è una operazione intuitiva. Tuttavia, nella sua versione più elementare e semplicistica, l’attività finanziaria si basa su una previsione che l’investitore attua nei confronti di una data grandezza economica, acquistandola nel caso in cui creda il suo valore possa crescere, vendendola nel caso contrario. In questa prospettiva il mercato dell’arte potrebbe recepire dalla finanza il concetto di accountability degli investimenti, vale a dire la capacità di fondare le dinamiche del valore su un set di motivazioni plausibili e verificabili. Questa piccola rivoluzione non solo aumenterebbe la rispettabilità degli investimenti in arte, ma ne migliorerebbe la redditività e il livello di investimenti aggregato.

Per comprendere meglio la reale portata di questa affermazione può essere utile ipotizzarne una possibile applicazione concreta. Lo si può fare immaginando, ad esempio, che una struttura museale possa acquistare e vendere liberamente le proprie opere al fine di migliorare la coerenza interna tra di esse e, quindi, valorizzare la propria collezione. In questo scenario, il museo, potrebbe lasciare trapelare (al pari di quanto accade oggi per le imprese) delle notizie che lascino intendere che la direzione scientifica vuole attivare un processo di valorizzazione di una delle proprie opere al fine di cederla per poi acquisire, con il ricavato di questa vendita, un’opera attualmente in possesso di terzi. Se il mercato dell’arte fosse dotato di idonei servizi di investimento, questo scenario genererebbe un duplice flusso di movimenti finanziari: da un lato si registrerebbero dei flussi aventi ad oggetto le opere, tra quelle presenti nella collezione del museo, che gli individui ritengono il museo possa vendere, dall’altro invece alcuni individui punterebbero su quelle che ritengono le opere che il museo acquisterà. Al termine di questo processo, ci sarebbero sicuramente delle persone che attraverso la propria attività finanziaria hanno ottenuto un rendimento, e altrettanto sicuramente ci sarebbero persone che hanno perso risorse: in ogni caso, al termine di questo processo, un’operazione che sarebbe semplicemente l’applicazione statutaria museale è divenuta occasione per creare e distribuire ricchezza e avvicinare (anche attraverso i flussi finanziari) molti più individui all’arte.

 

Cultura & Tecnologia: una relazione da ripensare

 

Il tema della finanza, per quanto suggestivo, non esaurisce tutte le possibili declinazioni che la cultura può e deve trovare nei prossimi anni. È necessario, ad esempio, che la cultura trovi un connubio sempre più forte e radicato con il mondo della tecnologia e in particolar modo con quello della tecnologia mobile: da un punto di vista di grandezze di mercato, infatti, è stimato che questo settore mostrerà fino al 2017 un tasso di crescita medio annuo pari al 14%, mentre gli investimenti in questo settore avranno una crescita triennale del 114% rispetto al 2014, anno in cui, il solo mobile-commerce è cresciuto invece del 55%. Un settore dunque in piena espansione, indissolubilmente legato alle dinamiche culturali, e i cui effetti non si limitano alla sola portata economica. Tecnologia e Cultura formano già oggi un binomio estremamente potente: a conferma di ciò, si pensi a Google e all’attività del Google Cultural Institute, che sta letteralmente rivoluzionando il concetto di fruizione artistica. È il caso del progetto legato al fenomeno della street-art, che permette di visualizzare con grande dettaglio e qualità dell’immagine opere dislocate in tutto il pianeta, così come è il caso del Google Art Project, che con la collaborazione dei più importanti musei internazionali, permette di ammirare i capolavori storici che hanno segnato la storia dell’arte mondiale.

A ben vedere, la reale portata innovativa di questi progetti, non è nella mera duplicazione dell’opera in formato digitale; la rivoluzione è nella qualità della fruizione. Il grado di dettaglio con cui è possibile visionare le immagini porta il fruitore ad avere un rapporto molto più intimo e concreto con l’opera in formato digitale rispetto a quanto potrebbe mai ottenere di fronte all’originale. Se il museo, malgrado gli sforzi e le rivoluzioni culturali susseguitesi dal post-modernismo in poi, è rimasto un luogo in cui la fruizione è limitata e vincolata (barriere spaziali, inquinamento acustico e visivo, orari di apertura e dislocazione geografica), l’opera sullo schermo è invece a completa disposizione del fruitore, che può avvicinarsi come mai potrebbe diversamente, fino ad apprezzare il dettaglio della singola pennellata, e andare ancora più in profondità. I risultati di questa rivoluzione non mancano: i dati dimostrano come, nel caso di Notte Stellata di Van Gogh, che rappresenta il quadro più visionato tra quelli presenti nel database (ma forse è il caso di parlare di collezione?), il tempo medio di permanenza di fronte al dipinto è di circa 1 minuto, contro i 20 secondi di permanenza che i fruitori dedicano, in media, ai dipinti reali. Questi esempi, che permettono una rapida comprensione di come cultura e tecnologia possano e debbano allearsi, e che nel contempo evidenziano come sia soprattutto sull’iniziativa della tecnologia che questo stia avvenendo, trovano un ulteriore conferma in un altro progetto del colosso dei motori di ricerca: Google Ingress.

Google Ingress è un gioco basato sulla tecnologia della realtà aumentata, in cui due grandi schieramenti si contrappongono per entrare in possesso di sempre più aree geografiche (reali) per poter aumentare il livello di unità mentali (virtuali) e di conseguenza vincere la fazione opposta. Per giocare, il singolo player deve recarsi fisicamente presso appositi “portali” e da lì avviare dei procedimenti per assegnare quella destinazione geografica al proprio team. Questi “luoghi” rappresentano destinazioni simboliche della città o del piccolo comune in cui ci si trova: una statua, un’opera di street art, un parco naturale, etc, al punto che Ingress può concretamente disegnare sul territorio reale, dei veri e propri itinerari turistici, selezionati dagli utenti, in cui il giocatore conquista, quasi come un colono della propria esperienza, le tappe della propria visita.

 

Verso una cultura che sia anche sviluppo

 

Parlare di cultura, oggi, significa dunque apprendere linguaggi nuovi, a volte distanti dall’idea esclusivamente umanistica con la quale la cultura è stata rappresentata: bisogna parlare di tecnologie, app, rendimenti finanziari, schemi societari, e ancora accounting, normative, privacy, impatti economici e sociali, destinazioni d’uso e segmentazione del mercato. Perché se il futuro della cultura passa attraverso discipline ed esperienze altre, la cultura ricopre invece, in un gioco di mutua influenza, un ruolo centrale nello sviluppo di altri settori.

In questo senso va interpretata la presenza sempre più sensibile di progetti culturali legati allo sviluppo territoriale ed urbanistico, settore in cui, a partire dall’exploit dei processi di rigenerazione urbana, il concetto di infrastruttura immateriale si è sempre più imposto. Per averne conferma basta guardare all’attività di Cdp Investimenti, la Società di Gestione del Risparmio di Cassa Depositi e Prestiti, che ha attivato due fondi di investimento immobiliari: Fondo Investimenti per la Valorizzazione e Fondo Investimenti per l’Abitare. Il primo, mirato alla riqualificazione, detiene numerosi edifici considerati di elevato interesse per il loro valore storico e culturale, ma non solo: l’attività di valorizzazione prevede spesso che la destinazione d’uso futura degli edifici abbia natura ricettiva, radicando con ancora più vigore il binomio turismo e cultura nel nostro Paese. Anche quando gli investimenti immobiliari hanno invece uno scopo prettamente abitativo, come nel caso del Fondo di Investimenti per l’Abitare che rappresenta investimenti in Social Housing, la cultura è un elemento essenziale: strutture ricreative e spazi culturali sono previsti in numerosi progetti finora finanziati dal fondo, a sottolineare come i concetti di well-being e di sustainable development non possano prescindere dalla dimensione culturale.

Il rapporto tra consumo culturale e benessere è oggi oggetto di numerose indagini che mirano a sviluppare dei framework entro i quali comprendere e misurare gli effetti benefici della fruizione culturale. Non è un caso, dunque, che organizzazioni apparentemente lontane dal mondo della cultura stiano divenendo protagoniste nelle attività di produzione ed erogazione di contenuti culturali: si pensi all’attività di organizzazione eventi dei più importanti centri commerciali, che propongono già da qualche anno palinsesti con spettacoli teatrali, eventi musicali differenziati (dal jazz al pop), fino ad ospitare mostre di arte moderna. È quanto avvenuto in un importante centro commerciale del sud Italia che nel primo semestre del 2015 ha ospitato alcuni capolavori di Andy Warhol, superando la barriera psicologica della cosiddetta arte colta. Questo interesse da parte di strutture prettamente commerciali nei confronti della cultura (in molte delle sue forme) è una tappa di un percorso che la cultura dovrà necessariamente comprendere e sviluppare strategicamente se non vuole vestire un ruolo paradossalmente secondario. Estendersi oltre i confini che si è autonomamente ritagliata, uscire dal ghetto dell’autoreferenzialità e inoltrarsi in territori (psicologici, virtuali e concreti) ancora non “mappati”.

Solo così lo sviluppo della cultura nei prossimi anni potrà rispondere a quella esigenza di “evoluzione” che è sempre più percepita come necessaria, ma che ancora non ha trovato nel mondo culturale, un interlocutore con il necessario coraggio e le essenziali competenze.

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