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Giorgio Morandi e il “canone” cinese

del

Il 6 dicembre scorso, al termine di una concitata fase organizzativa iniziata quando neppure avremmo creduto che alcuno, in Italia e al mondo, potesse solo immaginare un cartellone di esposizioni temporanee, il Museo M Woods di Pechino inaugura la mostra Giorgio Morandi: the Poetics of Stillness, con oltre ottanta opere fra olii, acquarelli, disegni e incisioni del nostro grande artista.

In questo tempo così buio e depresso, talmente scoraggiato che ormai qualsiasi buona notizia si disarma a pochi giorni dalla sua comparsa e perde la sua capacità propulsiva, quando insomma sembra che non riusciamo più – per mancanza d’animo – a buttare il cuore oltre l’ostacolo, ci si deve avvalere, per sentirsi vivi, di tutto ciò che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo.

E poiché in Patria la chiusura dei musei, dei teatri e dei cinema, delle gallerie private, delle fondazioni e delle associazioni culturali ci ha privato da troppi mesi (colpevolmente!) di qualsiasi sollievo e nutrimento, proprio quando ne avremmo più bisogno, siamo ben contenti di segnalare quell’apparentemente poco ma così importante che ci riguarda da vicino e che, forse questo solo, riesce a dar conto di quale peso enorme abbiamo, noi italiani, nella cultura mondiale.

Chi scrive ha partecipato – orgogliosamente – alla costruzione di questa opportunità e per questo ha potuto godere, malgré soi da lontano, dello straordinario beneficio che questa bella mostra pechinese ha sulle nostre coscienze.

Il pubblico numeroso alla mostra Giorgio Morandi. The Poetics of Stillness. © photo china.org.cn/china.com.com

Ciò accade nel fatale 2020, durante il quale si sarebbero dovute susseguire diverse manifestazioni italiane in Cina, una delle quali proprio su Morandi, a ricordare, cinquant’anni fa, l’inizio delle nostre relazioni diplomatiche con il Paese della Grande Muraglia.

Manifestazioni che sono state purtroppo cancellate, speriamo solo temporaneamente, soccombendo sotto il peso della necessità pandemica che ne impediva la programmazione.

È vero che il Covid-19 non dà tregua e che anche qui, oggi, a fine gennaio 2021, torna a trattenere il fiato per alcuni casi registrati negli ultimi giorni, ma di fatto la Cina è altra cosa e in condizione davvero differente rispetto al resto del globo, e Pechino è pur sempre Pechino: con i suoi quasi ventidue milioni di abitanti in certo modo può infischiarsene del turismo occasionale; infine, il Museo Woods è un museo privato (anzi, indipendente) di recente costituzione.

E’ stato fondato da due entusiasti collezionisti, Lin Han e Wanwan Lei, che hanno saputo cogliere, nel momento in cui il loro Paese stava già risalendo la china della catastrofe che l’aveva colpita per prima, l’occasione per vedere l’orizzonte prima degli altri. E colsero la rosa italiana.

Il Museo M Woods a Pechino (sede centrale nell’Art District 798) © photo Museo M Woods

Con la fondamentale mediazione e organizzazione italiana di MondoMostre, il Museo M Woods ha concepito la prima grande rassegna monografica in Cina sull’artista italiano del Novecento che tocca le corde più intime del pubblico orientale per quell’insieme di ragioni che analizzerò a breve e per quei tasti che suonano una musica riconoscibile anche dall’altra parte della Terra.

La mostra si giova di alcuni prestiti privati di notevole livello, fra i quali diversi olii della Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, altri di una importante collezione di Lugano, nonché opere dalle tecniche diverse cooptate con il contributo attento e partecipe della Galleria Maggiore di Bologna che ha per l’occasione coinvolto – e questo è forse l’aspetto per noi italiani più notevole – alcune opere di proprietà cinese.

La curatela della rassegna è di Victor Wang, direttore artistico e curatore in capo del Museo, che ha scritto un saggio in catalogo di grande interesse per noi occidentali su quello che possiamo ben definire il “Morandi cinese”: del resto quelle sono le prime righe di penna estremo-orientale che si cimentano in un ragionamento concluso (o di apertura per un contesto critico impostato su basi teoriche diverse dalle nostre) sul nostro Artista, avvalendosi di un corposo numero di opere di qualità fuor di discussione.

Una delle sale della mostra Giorgio Morandi. The Poetics of Stillness, al Museo M Woods, Pechino. © photo Museo M Woods

Perché Morandi è amatissimo presso quel coacervo complesso e di difficile analisi che è il collezionismo cinese contemporaneo, proiettato verso la promozione di nuovi impulsi visivi (con esiti alterni e non sempre per noi convincenti) ma con una profonda consapevolezza del ricco patrimonio del passato.

Un passato dell’arte che per i Cinesi ha un peso così determinante da costituire la meta intorno alla quale tutta la contemporaneità ha dovuto confrontarsi, quasi sempre senza entrarvi in conflitto, al contrario di quanto da noi accade (in Italia il passato sentito più come un fardello che una fonte inesauribile di ispirazione, fatte salve alcune ottime eccezioni).

Tuttavia, variando il contesto, il retaggio culturale con il suo insieme di stilemi, princìpii, regole, norme estetiche, influenze e portati provoca una sorta di virata rispetto alle letture più consuete di un artista di grande fama, per il quale la critica – soprattutto del Paese di provenienza – parrebbe aver già tutto decretato.

Io so, come mi fa notare l’eccellente Francesco Guzzetti (oggi protagonista di una mostra straordinaria su Mario Schifano al CIMA di Laura Mattioli a New York), che il nostro maggior studioso di Morandi e caro amico a cui molto devo, Flavio Fergonzi, rifiuterebbe un’analisi che prescindesse dai punti fermi raggiunti dai nostri studiosi e si appoggiasse a una diversa sensibilità, sensibilità che faticherebbe ad accogliere alcuni nostri assunti (per fare un esempio banale, la presunta centralità rappresentativa delle “bottiglie” rispetto ai “paesaggi” morandiani).

E non v’è dubbio che avrebbe, dal suo punto di vista, ragioni da vendere. Ma come vogliamo venga intesa l’arte se si è disposti, dal momento in cui questa esce dai confini delle terre d’origine, a riconoscere che debba diventare di universale proprietà (o, meglio, di universale “appropriazione”)?

Quali sono i canoni normati dalla cultura, i criteri invece personalissimi che però di quella cultura si nutrono, che spingono un collezionista cinese ad apprezzare e acquistare Morandi e il pubblico di Pechino a mettersi in fila – come da noi solo a uno stadio di calcio pre-pandemia – per attendere alla mostra di un artista che ormai è considerato “acquisito”, così come si fa, in Cina, per Botticelli, Leonardo, Michelangelo e per i grandi della nostra amatissima storia artistica?

E, attenzione, Morandi non è, per il compratore cinese, il punto di arrivo in una collezione che debba partecipare del variegato e superficiale show-biz del sistema dell’arte, in Cina, peraltro, più che miliardario, quanto piuttosto l’emblema della ricerca più raffinata, del trouvaille che non si piega alle mode. E quindi decisamente vicino all’attitudine di chi compra non per capriccio bensì per intimo studio e per vero desiderio.

Il pubblico di Pechino a oltre una settimana dall’apertura della mostra
Giorgio Morandi Poetics of Stillness in fila all’ingresso del Museo M Woods. © photo Museo M Woods

La mostra del Museo M Woods si divide in quattro aree di indagine e ospita opere che abbracciano l’arco temporale che va dagli albori dell’attività di Morandi sino alle ultime prove degli anni ’60 del XX secolo.

Ma il display non intende seguire un percorso cronologico quanto piuttosto un filo conduttore che insiste sul criterio tutto morandiano di “disposizione di oggetti diversi al fine di creare una singola immagine” (dal testo critico di V. Wang) oltre che indagare i principi di ripetizione e ricorrenza che informano tutta la produzione del Bolognese sia nelle nature morte così come nei paesaggi e nei fiori, senza tralasciare l’analisi dell’evoluzione formale del Nostro.

Secondo questi enunciati le isole tematiche in mostra sono: Transitions, Recurrence, Landscapes (Paesaggi e fiori) e Late works on paper.

Osservate bene queste categorie non usuali nella nostra idea di rassegna morandiana. Wang insiste molto sull’influenza, dal punto di vista strettamente formale breve ma intensa, che la Metafisica ebbe sul nostro pittore lasciandogli indelebile la traccia dell’idea trascendentale della realtà fenomenica.

Anche l’avvicinamento di Morandi ai principi del movimento di Strapaese viene assunto come fondante nella lettura in particolare dei paesaggi, qui considerati come un necessario ritorno a una natura intima e familiare, consolatrice e curativa soprattutto durante gli anni bui della seconda guerra mondiale.

Il tema della “ricorrenza”, così caro alla cultura cinese, è osservato attraverso alcune opere che presentano i noti stilemi della bottiglia bianca e del vaso cilindrico. La ricorrenza è la ripetizione del tempo che in questo modo perde i propri contorni identificativi e si annulla, universalizzandosi.

La serie delle opere con la bottiglia bianca nella sezione “Recurrence
in Giorgio Morandi. The Poetics of Stilness, al Museo M Woods, Pechino sino al 5 aprile 2021. © photo Museo M Woods

Per la cultura cinese il tema della riproduzione non tanto seriale, come molti di noi potrebbero intendere, quanto piuttosto “ricorrente” è determinante.

Senza pretendere di voler qui tratteggiare un improbabile breviario dei principi della storia artistica cinese, si può senz’altro convenire genericamente sul fatto che, secondo anche i precetti del Confucianesimo che prevede l’acritica venerazione del discepolo nei confronti del Maestro, l’artista non ha alcun merito nell’innovare, ma ne ha nell’imitare i predecessori, spesso anche secondo la più rigida maniera.

Una pratica che, lungi dall’essere considerata illecita o plagiante, era invece di assoluto valore. Secondo tale postulato, che informa però trasversalmente tutta la millenniale storia della pittura cinese sino ai nostri giorni, l’oggetto della pratica pittorica era organizzato in diverse categorie come, ad esempio, i Fiori, i Paesaggi (soprattutto se presentano montagne con fiumi o cascate), i Pesci, gli Uccelli, ecc., entro i quali poterono essere esperite differenti modalità formali e si svilupparono molte scuole di grande rilievo.

Benché le forme di espressione subiscano un’apparente limitazione, non per questo la storia della pittura cinese non affrontò – forse addirittura con i più alti esiti nella storia artistica umana – la materia simbolica dei propri contenuti visivi.

Sempre in modo generico, e mi si perdoni ancora questa improvvida indeterminatezza, si può affermare che i contenuti naturalistici della pittura cinese intendono piuttosto rivelare la poetica dell’artista attraverso una complicata codificazione metaforica, tale per cui – ad esempio – il pino o l’airone indicano “longevità”, così come, nei paesaggi, le alte vette dei monti rappresentano una persona nobile, mentre le colline o i prati il popolino.

Oltre a ciò, sempre in linea generale, il realismo dei colori en plein air tanto cari alla modernità del nostro Occidente, ha poca presa nell’arte cinese votata piuttosto alla giustapposizione filosofica di luce-ombra o alla contrapposizione semantica di pieno-vuoto.

Per l’artista cinese l’oggetto della propria arte è considerato dal punto di vista spirituale e non reale, forma espressiva dell’animo del pittore, medium attraverso cui far intendere all’osservatore il proprio mondo interiore sia dal punto di vista filosofico che da quello meramente sentimentale.

La sala dei fiori in Giorgio Morandi. The Poetics of Stilness al Museo M Woods, Pechino. © photo Museo M Woods

In questo senso, sono convinta che avrebbe grande successo in Cina una mostra sui magnifici e conturbanti fiori di Mafai, da noi sì celebrati ma ancora in attesa di una reale consacrazione. Sono pronta a scommettere…

Ma, per tornare al “canone” cinese, non si può dimenticare che il tema del paesaggio è considerato una delle forme espressive più alte in pittura sin dal periodo della dinastia Tang (618-907), per diventare un genere preminente in particolare nel periodo successivo, dalle Cinque Dinastie sino alla Canzone del Nord (907-1127), durante il quale si formarono due correnti tecnico-formali semplicisticamente inquadrate nello stile del nord, tipico per le sue linee potenti ed espressive mentre al sud si dipingeva con pennellate più dolci e “chiariste” (per dirla in termini a noi prossimi).

Ma ciò che importava all’artista, aldilà delle questioni squisitamente stilistiche, era afferrare il ritmo della Natura, la sua consonanza con l’animo umano, o – meglio ancora – la sintonia che l’Uomo tenta di ottenere con essa, attraverso la meditazione e la considerazione della propria essenza filosofica.

Una ricerca, insomma, che svela la metafisica delle cose cosiddette inanimate o del soffio vitale che perfonde la Natura. In questa prospettiva non si può non considerare l’importantissimo contributo del pensiero taoista e buddista nell’arte cinese.

Contributo di cui certamente l’Occidente non si avvarrà mai, benché artisti come Mathieu o Riopelle possano essere annoverati fra coloro che trassero ispirazione da suggestioni della filosofia estremo-orientale. Ma qui si parla di astrazione…

Infine, si pensi che l’arte del paesaggio (così come la maggior parte della produzione pittorica cinese) non muta la sua millenaria dedizione all’inchiostro su carta sino all’arrivo di Xiao Tao Sheng (n. 1949), noto per aver introdotto in Patria, soltanto nel XX secolo avanzato, formalismi occidentali compreso l’uso della tecnica a olio.

Un particolare di una delle sale consacrate ai paesaggi morandiani in Giorgio Morandi. The Poetics of Stillness, al Museo M Woods, Pechino. © photo Museo M Woods

È facile, allora, capire come il pubblico cinese, su queste basi a tutti comuni, abbia inteso non solo Morandi ma anche il suo ricco bagaglio formale e spirituale, e financo tecnico, vista l’altissima considerazione tributata ad acquarelli e incisioni, osservati con il giusto occhio dell’accezione antinaturalistica e l’attenzione quasi fanatica nei confronti dei magnifici fiori morandiani.

Tanto che l’emblema della mostra (permettete con indulgenza questo vanto personalissimo) è costituito da quei Fiori del 1952 che arrivano dalla Collezione Giovanardi, certamente apprezzatissimi anche da noi, ma forse non al punto di assurgere a front-image della prima mostra monografica in un Paese così determinante negli attuali equilibri mondiali e così attento alle questioni culturali interne e internazionali.

E qui ben calza anche la considerazione che per Morandi il realismo è questione secondaria: gli stessi paesaggi non sono quasi mai concepiti dal vero, ma ricostruiti sulla base della memoria visiva e non di rado (come accade proprio con l’esempio in mostra del noto La strada bianca del 1941) mutuati da una prima prova grafica al punto che il risultato su tela è speculare rispetto al “modello”. A testimoniare la distanza indifferente fra la materia rappresentata e quella fenomenica.

Tuttavia, e che non sembri una contraddizione, Morandi deplora la pittura di certi giovani suoi contemporanei che si sono dati troppo in fretta all’astrazione e producono troppo e troppo velocemente e con esiti talmente scoordinati e disorganici da non poter riconoscere più alcuna linea naturalistica all’interno delle loro composizioni.

Museo M Woods, Pechino: Giorgio Morandi. The Poetics of Stilness; l’immagine-simbolo della mostra. © photo Museo M Woods

Morandi considera cosa difficile e assai pericolosa non saper comprendere quale sia il momento di arrestarsi in questa semplificazione della realtà[1].

Tutto è naturale, afferma Morandi, e “bisogna lavorare” affinché un’opera d’arte sia bella. Che termine, questo, che non osiamo quasi più utilizzare e che invece commisura esattamente il rapporto strettissimo fra l’osservatore e l’opera d’arte.

Come se la bellezza si ottenesse attraverso il lavoro… un altro assunto che per il pubblico cinese è in realtà pane quotidiano, facendo da guida il gesto perfetto (e la ripetizione infinita di questo) alla costruzione perfetta dell’opera. Il pubblico cinese non ha paura di definire “bella” un’opera quando questa lo sia effettivamente…

Victor Wang, lungi dal voler azzardare troppo facili traslitterazioni fra l’arte morandiana e quella cinese tout-court, osserva che “la cinese considerazione del “dentro” in pittura può illuminare la pratica morandiana di campire le bottiglie con pennellate di colore tali da alterare la loro essenza visiva aprendo una nuova via di penetrazione in uno spazio più profondo di comprensione (dell’opera n.d.a.)” [2]

Il tentativo di lettura “cinese” dell’opera morandiana è quindi, legittimamente o meno, quello di decontestualizzare Morandi dall’Italia dell’arte della prima metà del Novecento per inserire il suo linguaggio in una più universale occasione di assimilazione delle culture.

Non credo si possa parlare di “colonizzazione”, ma di “appropriazione” certamente sì. E non sono sicura che questa operazione sia del tutto incomprensibile, benché le mie radici arganiane e strutturaliste confliggano più che apertamente con questo concetto.

Ma, cambiando l’età e mutando il tempo, non è detto che l’ “esigenza” artistica divenga sempre più preponderante al punto di desiderare che – se non riusciamo a creare connessioni profonde e autentiche fra i popoli – almeno il linguaggio dell’arte possa e debba essere considerato un vettore per avvicinarci.

I collezionisti cinesi acquistano anche, e con passione, i paesaggi di Morandi e chiedono con bramosia i poetici e ipnotici fiori. Non sono come l’avvocato Agnelli che, al consigliere per gli acquisti di opere del Nostro, rivolgeva asciutto la domanda “Quante bottiglie ci sono?” e dal numero degli oggetti decideva la compera, mai considerando alternative alle Nature Morte. In linea con molti nostri cosiddetti collezionisti, del resto.

E se il processo di avvicinamento di un artista alla sensibilità di un popolo così diverso da noi come quello cinese (ma a cui ci accomuna una cultura millenaria che ha determinato la sorte delle genti da una parte e dall’altra del nostro globo) produce l’effetto della riscoperta anche di una produzione per noi a torto considerata “minore”, mentre quella “maggiore” rimane la bandiera da cui partire con lo scambio, questo – mi sembra – vale la penna. Ma siamo solo all’inizio e la partita è tutta da giocare.


[1]  Si legga in proposito il bel saggio di G.F. in Suites no.5, scarno cataloghino che accompagna una mostra morandiana alla Galerie Krugier di Ginevra nel novembre del 1963.

[2] V. Wang, Giorgio Morandi: Centrality, Language, and China, testo in catalogo di prossima pubblicazione della mostra Giorgio Morandi. The Poetics of Stillness, Museo M Woods, Pechino, dicembre 2020 – aprile 2021.

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