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Presente e futuro della Light Art: intervista a Gisella Gellini (Politecnico di Milano)

del

L’idea di intervistare Gisella Gellini sulla Light Art è nata da un incontro organizzato nell’ambito delle mie attività di sensibilizzazione del mondo accademico e artistico nei confronti della black light painting. Devo ringraziare Gianni Forcolini, docente e ricercatore in Lighting Design del Politecnico di Milano che mi ha permesso di conoscere Gisella, docente di “Light Art e Design della Luce” al Politecnico di Milano e attualmente una delle maggiori esperte di Light Art.

Fabio Agrifoglio: Gisella, come è nato il tuo interesse per la light art?

Gisella Gellini: «Riflettendo a posteriori direi che, questo mio interesse per la light art, è stato il risultato di una maturazione di qualche anno. Il tutto è scaturito dall’incontro con Giuseppe Panza di Biumo, grande mecenate e collezionista e dalla visita alla sua collezione di Arte Ambientale a Biumo. Il mio interesse si è poi concretizzato grazie alla collaborazione con il personale del laboratorio Colore del Politecnico di Milano e in particolare con il prof. Mario Bisson che è il responsabile del laboratorio stesso e con due docenti di illuminotecnica, Gianni Forcolini e Francesco Murano. Questi professori, con formazione tecnica di eccellenza, hanno accettato non solo di collaborare con me in questo percorso, partito come semplice soggetto di ricerca, ma persino di costruire la possibilità di dare corpo alla mia idea, di mettere in contatto l’Università con gli artisti della luce».

F.A.: «A proposito della relazione tra questi due mondi, nel 2006 scrivevi: “L’idea iniziale per la realizzazione di una ricerca sull’Arte della Luce è nata dalla verifica dello ‘iato’, dalla separazione che esiste tra l’arte della luce e la tecnica della luce, che è uno degli aspetti del distacco odierno tra la cultura umanistica e quella tecnica scientifica. Oggi a distanza di 10 anni questa separazione è ancora reale e marcata?

G.G.: «Direi che si è ridotta molto. Quando ho iniziato questa ricerca c’era una netta separazione tra quello che era l’illuminotecnica, il Lighting design, da un lato, e l’artista, dall’altro. Invece oggi la distanza si è molto ridotta, ma il massimo sarebbe poter vedere queste due figure confluire in una cultura unitaria, che pure abbia diverse sfaccettature e indirizzi specialistici».

F.A.: Il corso “Light Art e Design della luce”, che tieni al Politecnico di Milano, è una azione che mira a ridurre questa separazione?

G.G.: «Sì, è proprio così: io non sono una critica d’arte, sono un architetto, e normalmente invito al mio corso alla Scuola del Design del politecnico di Milano esperti del colore, della luce e  curatori aggiornati su quello che succede nel mondo dell’arte: loro danno un valido contributo per trasmettere di prima mano agli studenti, ai futuri progettisti, le informazioni ed il “feeling” di quanto succede in Italia nel mondo della Light Art».

Robert Irwin, Untitled, Column, 2011.
Robert Irwin, Untitled, Column, 2011.

F.A.: Quali sono le necessità delle opere di Light Art?

G.G.: «Ogni opera di luce ha bisogno del suo spazio. Giuseppa Panza lo capì, prima ancora di cominciare a realizzare la sua collezione di Arte Ambientale. La luce di un’istallazione ha la necessità di non venire disturbata da altre fonti luminose ed ha quindi la necessità di uno spazio dedicato. Naturalmente l’illuminazione di un ambiente può essere realizzata attraverso l’installazione di una opera di Light art. Peraltro questo potrebbe essere un mezzo per portare anche all’interno di abitazioni e ambienti urbani le opere artistiche di luce, senza dover visitare musei, fondazioni, spazi che solo una nicchia limitata di persone frequentano».

F.A.: Questa scarsa frequentazione è sintomo di un rapporto difficile tra pubblico e light art?

G.G.: «A mio avviso, dovremmo realizzare l’arte pubblica attraverso la luce. Oggi, spesso, troviamo nello spazio urbano tante pennellate di luce colorata realizzate e disposte senza un piano prestabilito e che hanno come risultato di non lasciare neanche vedere quello che deve essere illuminato: non c’è ordine, ognuno fa quello che vuole, si usano i colori senza averne la giusta cultura e di conseguenza l’effetto sul cittadino utente è quello di creare disinteresse verso l’arte di illuminare. In Italia non c’è una vera arte pubblica della luce. Una volta si commissionavano agli artisti monumenti o edifici come opere d’arte pubblica. Oggi, sempre più frequentemente, in alcuni paesi vengono chiamati degli artisti per illuminare edifici storici ed ambienti urbani. Da noi ancora non c’è questa mentalità; fa eccezione Torino, che, con Luci d’Artista, si trasforma in un museo all’aperto da novembre a gennaio: qui possiamo vedere che cosa gli artisti riescono a fare. Alcune installazioni realizzate da Mario Merz, Michelangelo Pistoletto ed altri, sono diventate permanenti e costituiscono punti di riferimento nel tessuto urbano».

Daniel Buren, Tappeto volante, 2010. Per Torino Luci d'Artista.
Daniel Buren, Tappeto volante, 2010. Per Torino Luci d’Artista.

F.A.: Ma quali sono i rischi di questa mancanza di progettualità?

G.G.: «Si spendono moltissimi soldi per fare il festival della luce, la notte della luce, eventi realizzati come show e che costano molti soldi, ma che sono culturalmente poveri. L’approccio più comune è che, invece di invitare il pubblico alla kermesse della salsiccia, lo si invita alla kermesse della luce: la città diventa un maxi schermo dove fare “mapping”. Il fatto di insistere in questa direzione non so cosa può produrre. Oggi tutti parlano di luce e tutti vogliono usarla, ma poche volte si ricorre a persone competenti».

F.A.: Ci puoi parlare di qualche opera che tu ritieni particolarmente significativa?

G.G.: «Mi viene subito in mente il Roden Crater di James Turrell. Ho avuto la fortuna di conoscere bene l’artista, oggi, a mio parere, il più grande artista vivente della Light Art. L’ho incontrato a Venezia e a Bergamo. Il Roden Crater è la più grande opera ambientale che esista al mondo. È un’opera che è iniziata negli anni ’70 e la sua realizzazione è proseguita nel tempo sino a oggi. Proprio Giuseppe Panza di Biumo è stato il primo collezionista che inizialmente ha aiutato a realizzare questa opera. Tecnicamente Turrell ha costruito in un vulcano spento, un grande osservatorio della luce, dove ha creato quello ha chiamato l’occhio del cratere, ovvero in cima al cratere ha creato un grande occhio e sotto ha realizzato una serie di spazi che sono degli osservatori della luce. Con questa opera l’artista ci insegna che ci rapportiamo alla luce non soltanto con il vedere, ma anche con il sentire. Per renderlo evidente ha acquisito questo vulcano che è posto in una locazione priva di disturbi acustici per il suo immenso e silenzioso spazio attorno.  Roden Crater è un work in progress, nel senso che continuamente l’artista aggiunge nuovi punti di osservazione, ma già da ora là puoi vedere e sentire la luce durante tutto l’anno, a tutte le ore del giorno».

James Turrell, Roden Crater project
James Turrell, Roden Crater project

F.A.: Prima accennavi a Giuseppe Panza. Puoi parlarci di lui?

G.G.: «Io ho conosciuto Panza, che è veramente stato un collezionista a parte; è un peccato che Milano non gli abbia mai riconosciuto questo ruolo e non gli abbia dato nessun riconoscimento, né abbia realizzato in città una mostra dedicata alla sua collezione. Il primo artista di questo settore che lui ha conosciuto è stato Dan Flavin, l’artista della luce e del colore per eccellenza. Panza capì, attraverso i suoi viaggi in America, il valore ed il corretto modo di rapportarsi e presentare le opere di luce e con questi criteri ha realizzato la sua collezione di Arte ambientale. Panza è mancato nel 2010 ed è stata una perdita enorme».

F.A.: A proposito di Dan Flavin, in occasione della sua esposizione e Villa Panza, hai scritto “è un poeta della luce … Flavin, intuisce che la percezione dello spazio in una stanza può essere modificata con installazioni di luce reale che creano un effetto illusorio”…

G.G.: «A Villa Panza si può vedere l’effetto del lavoro di Flavin in relazione allo spazio. È un grande perché attraverso dei mezzi minimi, tubi fluorescenti di varie misure e di varie colorazioni che comprava nel negozio sotto casa, è riuscito a creare effetti speciali negli ambienti dei “Rustici” di Villa Panza».

F.A.: Alla Light Art hai dedicato una pubblicazione molto particolare, “Light Art in Italy”, che è quasi un progetto di conservazione…

G.G.: «Anche questo progetto è nato grazie allo stimolo di Giuseppe Panza di Biumo. In questi anni ho accumulato tante informazioni e archiviato molta documentazione sulle opere di vari artisti. Mentre un quadro può avere un futuro anche diverso da quello iniziale – lo puoi spostare da una parete ad un’altra, o da un luogo all’altro – per le installazioni “site specific” è difficile avere un futuro: il loro messaggio è generalmente disperso nel tempo. Invece, grazie alla collaborazione con la giornalista Clara Lovisetti, chiediamo direttamente alla fonte la documentazione relativa a installazioni effettuate in Italia in spazi pubblici o fondazioni, assembliamo il materiale e realizziamo la pubblicazione “Light Art in Italy, temporary installations” edita da Maggioli Editore: questo mantiene una traccia di quanto è stato realizzato nel corso dell’anno».

Una delle installazioni di Dan Flavin a Villa Panza a Varese.
Una delle installazioni di Dan Flavin a Villa Panza a Varese.

F.A.: Foto o video per “raccontare” queste installazioni?

G.G.: «Sì, servirebbe anche il video, perché “la coordinata tempo” è indispensabile per trasmettere tutte le sensazioni prodotta da un’opera di luce, specialmente quando questa presenta fenomeni luminosi che variano nel tempo. Purtroppo non tutti gli artisti l’hanno capito e molti video li troviamo solo su youtube».

F.A.: Cosa ci puoi dire delle prospettive e delle difficoltà che il futuro riserva agli artisti della luce?

G.G.: «Molti artisti non hanno il potenziale economico adeguato per lo sviluppo e la promozione della loro attività. Purtroppo per lavorare in questo campo servono risorse ingenti. Ci sono tanti giovani che stanno venendo alla luce, ma non hanno le possibilità economiche, il potenziale per una adeguata promozione: ci vorrebbe pochino di sensibilità per supportarli in maniera adeguata. Lo dico sempre all’industria: perché non tenete d’occhio questi giovani, che saranno i futuri progettisti e che potranno darvi un contributo valido e innovativo nella progettazione? Purtroppo cosa devono fare gli artisti? Devono fare dei lavori alternativi, per poter fare queste opere; non esistono più i mecenati».

F.A.: Il 2015 è stato l’Anno della Luce per l’Unesco, è in questa occasione, in tutto il mondo, si sono moltiplicate anche le iniziative di Light Art. Quali sono state le più importanti in Italia?

G.G.: «Io ho iniziato il mio libro, quello del 2014/2015, dicendo è stata un’occasione mancata, persa, perché in realtà abbiamo iniziato a parlare dell’Anno della Luce e doveva essere una occasione per fare progetti. Invece ho visto tante manifestazioni con uno spreco di luci pazzesco, ma senza realizzare opere di ampio respiro, che restino. Tutti hanno un po’ approfittato per parlare di luce ma non in maniera corretta: molto show, molto light show, ma poca arte. Si tende a far così perché è più semplice, perché colpisce. Di tutte queste esperienze fatte durante l’Anno della Luce (in Italia ma anche all’estero) rimane culturalmente poco: tutti hanno avuto tanti soldi per fare, hanno fatto il festival, l’evento, la manifestazione ma poi, spento tutto, in una città non rimane nulla. Se vogliamo lasciare un segno non dobbiamo fare 500 manifestazioni ma farne 50 di alto livello».

FA: Cosa ha in programma Gisella Gellini nel suo immediato futuro?

G.G.: «Nel mio immediato futuro ho in programma prima di tutto presentare una nuova edizione di light art 2015/2016, ma il mio sogno nel cassetto è realizzare il Museo della Luce in Italia».

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