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La ballata dei luoghi dimenticati. Intervista a Botto & Bruno

del

Si può dimenticare un luogo? Lasciare che svanisca nella memoria, fino a non lasciare più traccia? E che cosa dimentichiamo, esattamente, se dimentichiamo un luogo una volta abitato?

Ma che cos’è il luogo? Il luogo, a volte, è qualcosa che si ha, come gli eventi che “hanno luogo”, nel senso che prendono il loro posto nel tempo, fissandoci un appuntamento perché possiamo incontrarli. Mentre è fuori luogo qualcosa che sta nel posto sbagliato, lontana dal fulcro, di volta in volta, del discorso o del nostro interesse.

Il luogo è una porzione dello spazio, un insieme di punti in geometria, ma anche un posto dove abita il genio dotato di carattere (genius loci), per gli antichi animisti. Il luogo può essere pubblico, se tutti hanno diritto di passarci e soggiornarci, a patto di rispettare delle regole sociali e non farne uso privato. Oppure può essere un luogo della memoria, uno spazio mentale dove abita un ricordo.

Ma in che senso la memoria è un luogo? In che modo si può ridestare la memoria antica? Per esempio, possiamo ricordare – o non ricordare più –una casa non più abitata, o una costruzione ormai abbattuta e scomparsa dalle mappe che ormai tutto tracciano.

Ma istintivamente intuiamo che c’è dell’altro. Il luogo è qualcosa di più di tutto questo. Luogo è dove ci incontriamo, dove ci incontreremo o dove ci siamo incontrati un tempo. È memoria, presente e passato che si danno la mano. È luogo sognato, a cui facciamo ritorno nella profondità della psiche e del sogno, o luogo immaginato, o luogo fissato, nel tempo, per un prossimo appuntamento. E allora il suo tempo è quello dell’attesa.

Il luogo è tutto questo e molto altro ancora.

Allora, diremo che si può dimenticare un luogo? Certo, è possibile. Ma forse non del tutto. Forse una traccia dei luoghi abitati e percorsi esisterà sempre dentro di noi. Così come i profumi dei luoghi futuri che abiteremo chissà quando.

Botto& Bruno ,The ballad of forgotten places, 2018, veduta installazione, tecnica mista, Galleria Sabauda, Musei Reali, Torino, photo Renato Ghiazza

The ballad of forgotten places, la ballata dei luoghi dimenticati. Questo il titolo dell’opera di Botto & Bruno esposta al pubblico presso la Galleria Sabauda di Torino, all’interno del complesso dei Musei Reali. L’opera s’inscrive all’interno di un progetto più vasto volto alla promozione dell’arte italiana nel mondo, promosso dall’Italian Council nel 2018.

Si tratta di un’opera molto bella e profonda, sulla linea della produzione storica del duo di artisti torinesi. Una riflessione sui luoghi e sugli spazi, sul come sia possibile porre in dialogo dimensioni tra loro apparentemente molto lontane, se non opposte: il centro e la periferia, il museo e le rovine, il luogo dimenticato, di cui non restano che le antiche vestigia, o neppure quelle, e il luogo celebrato e celebrativo dei Musei Reali.

Ecco, qui di seguito, la loro intervista.

Maria Cristina Strati: Come nasce l’opera presentata alla Galleria Sabauda e il suo progetto?

Botto & Bruno: «L’opera nasce dall’invito della Fondazione Merz a partecipare al concorso di Italian Council nel 2018. The Ballad of forgotten places è risultata vincitrice del bando. È da un po’ di tempo che riflettevamo sul concetto di rovina. La frase di Marc Augè è stato il punto di partenza: “la nostra epoca non produce più rovine perché non ne ha il tempo”. Abbiamo iniziato a selezionare dal nostro archivio architetture moderniste e paesaggi situati ai confini delle città (paesaggi europei) che avevano subito negli anni violente trasformazioni. Il paesaggio all’interno della rovina è un luogo realizzato con numerosi frammenti di fotografie realizzate in tempi e luoghi diversi. Sempre con la nostra tecnica del collage analogico abbiamo unito frammenti di realtà creando così un paesaggio mentale.

Al centro dell’installazione abbiamo posizionato un basamento sopra il quale il visitatore può sfogliare un libro costituito da 150 immagini di luoghi perduti, dimenticati. A differenza degli altri lavori abbiamo trattato le fotografie pittoricamente con velature, quasi come se il tempo avesse lasciato una patina, come se fossero dei dagherrotipi, quasi come dei cieli turneriani. Nel libro poi questi interventi creano una sorta di storia, di viaggio in quanto nelle prime immagini i paesaggi sono ancora molto visibili e riconoscibili, mentre poco alla volta i cromatismi si trasformano e si scuriscono fino ad arrivare a coprire totalmente l’immagine. L’dea della rovina è scaturita dalla necessità di conservare la memoria di questi luoghi. Quello che desideravamo realizzare era un ambiente immersivo, meditativo.

Siamo stati molto felici che il lavoro sia entrato nelle collezioni dei Musei Reali e soprattutto che sia stato installato nella stanza degli stucchi. Gli orpelli neobarocchi vanno a dialogare con l’asciuttezza del modernismo della rovina. Nonostante le evidenti differenze ci siamo resi conto che invece dello scontro si è verificato un incontro, un dialogo, è come se l’opera avesse trovato il suo giusto posto. Lo spettatore si avvicina all’installazione in modo graduale, poco alla volta, entrando prima nel museo, poi nella sala degli stucchi, poi nella rovina per arrivare al libro, come in un gioco di scatole cinesi».

Botto& Bruno ,The ballad of forgotten places, 2018, veduta installazione, tecnica mista, Galleria Sabauda, Musei Reali, Torino, photo Renato Ghiazza

M.C.S.: Ci sono luoghi che hanno un’anima, un genius loci, appunto, e si trasformano in memorie e luoghi mentali. Voi li riportate in vita, li rendete di nuovo abitabili, in un certo senso. È un modo corretto per descrivere questo vostro lavoro?

B&B: «Si, certamente. Il nostro desiderio è sempre stato quello di cercare di ridare identità e dignità a quei luoghi che si considerano di serie B. Le nostre installazioni tentano di avvicinare il pubblico, di creare un’empatia tra loro e quei luoghi. Sono luoghi dove regna il silenzio, una pace interiore».

M.C.S.: Un altro aspetto del lavoro riguarda invece l’aspetto delle rovine, le rovine di un passato anche molto lontano, a cui però si contrappone il degrado della periferia contemporanea…

B&B: «In passato la periferia era piena di luoghi di lavoro, fabbriche piccole e grandi che donavano energia a vitalità a questi quartieri. In seguito, quando queste attività stavano chiudendo a poco a poco, non si è pensato che anche queste cattedrali del lavoro sarebbero potute diventare un pezzo di storia locale anche se facenti parte di un passato recente; dunque al pari delle architetture antiche avrebbero dovute essere tutelate e protette e magari avrebbero potuto diventare spazi per la cultura a tutti i livelli. Forse, adesso, al posto di supermercati tutti uguali a sé stessi, costruiti dopo aver buttato giù in fretta queste architetture piene di fascino e di storia, ci troveremmo con un paesaggio urbano senza dubbio più ricco e variegato. Il diktat della globalizzazione a tutti i costi ha voluto che le cose andassero in questo modo e cioè azzeramento totale del passato e un eterno presente dove dobbiamo solo consumare senza alcuna relazione affettiva con il territorio in cui viviamo».

Botto& Bruno ,The ballad of forgotten places, 2018, veduta installazione, tecnica mista, Galleria Sabauda, Musei Reali, Torino, photo Renato Ghiazza

M.C.S.: Il lavoro sulle periferie vi impegna da molto tempo. A vostro parere, come sono cambiate le periferie e il loro rapporto con il centro, negli anni? E che cosa può fare l’arte per migliorare questo rapporto e renderlo proficuo?

B&B: «Le periferie hanno subito negli anni un processo di trasformazione non certo positivo. Si è pensato, che riempiendo tutti i vuoti, costruendo, sottraendo identità, le periferie si sarebbero rivitalizzate. Ma così non è stato. I luoghi ai confini della città sono da sempre luoghi complessi perché trattati come problematici. Ci vive la maggior parte della popolazione e moltissime di queste persone conducono vite normali all’interno di questi quartieri. Associare sempre difficoltà e degrado a questi luoghi ha portato a tanti luoghi comuni e stereotipi. Detto questo le problematicità sono molte anche perché i problemi non sono stati mai affrontati seriamente e c’è sempre stata una mancanza di progettazione a lungo termine. La differenza tra centro periferia è una distinzione soprattutto mentale. Chi abita ai ‘bordi’ ha la sensazione di appartenere ad un altrove, quasi come se vivesse in un’altra città. Il centro non ha fatto molto per limitare queste distanze. Chi vive in centro non ha nessun motivo di andare in periferia ed è proprio questo il problema. Bisognerebbe creare degli eventi culturali importanti in modo da invogliare le persone a muoversi. Bisognerebbe però che ci fosse una rete di trasporti efficiente. Ma non è proprio così. Non vogliamo però assolutamente dire che la periferia deve diventare come il centro anche perché facendo questo si snaturerebbero questi luoghi e invece di ridare identità alle persone che ci vivono creerebbero l’effetto contrario. L’arte può fare molto, nel senso che può donare sguardi, può dare maggiori letture su questi luoghi, può far avvicinare le persone a questi spazi feriti, dimenticati che avrebbero solo bisogno di essere amati per recuperare forze ed energia».

M.C.S.: Ora quali sono i vostri progetti per il futuro? Quali i prossimi lavori?

B&B: «Questo lavoro ci ha coinvolto per quasi due anni. Adesso ci siamo chiusi in studio e stiamo lavorando a nuove idee. Ci interessa sempre continuare a sperimentare, a cercare sentieri non battuti anche senza sapere bene dove stiamo andando ma questo è necessario per cercare di scoprire qualcosa che ci stupisca; per tutto ciò abbiamo bisogno di concentrazione, tranquillità e soprattutto di tempo tutte cose queste che stanno diventando ultimamente sempre più preziose».

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.
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