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Restaurare un’opera; tra rispetto del bene e delle norme

del

Solo un diamante è per sempre, per lo meno secondo quella famosa pubblicità. Le opere d’arte, invece, anche le più resistenti (ad esempio le sculture), si deteriorano con il passare del tempo e possono essere oggetto di danneggiamenti e manomissioni.

Con un buon restauro è, tuttavia, possibile ristabilire l’integrità dell’opera, senza comprometterne la storicità e l’artisticità. Ma non è facile definire cosa si intenda con “buon restauro”.

A partire dal XIX secolo restauratori, critici e storici dell’arte hanno iniziato a domandarsi se gli interventi di restauro dovessero “rispettare” il passato del bene e, quindi, essere volti a preservarlo documentandone le alterazioni dovute alla sua storia – tesi promossa, tra i primi, dal poeta e critico britannico John Ruskin (Londra, 1819 – Brantwood, 1900) – oppure dovessero riportare il bene al suo stato originario, come documentato storicamente o, se ciò non fosse possibile, come il restauratore supponesse che fosse – tesi sostenuta, tra gli altri, da Eugéne Viollet Le Duc (Parigi, 1814 – Losanna, 1879), architetto francese noto per aver curato i restauri della cattedrale di Notre-Dame a Parigi.

In Italia, ruolo preminente e di guida nella definizione di limiti e/o indicazioni ai quali un intervento di restauro dovrebbe soggiacere è attribuito a Cesare Brandi (Siena, 1906 – Vignano, 1988), che ha contemperato le diverse teorie sostenendo come il restauro dovesse sì, da un lato, ristabilire l’integrità dell’opera, ma altresì, dall’altro, accrescerne la leggibilità del bene, evitando di cancellare le tracce del passaggio del tempo e, quindi, che il bene restaurato diventi un “falso storico”.

Se da un punto di vista storico/filologico i contorni dei limiti di un restauro risultano a volte vaghi e ciclicamente ridiscussi, a seconda delle diverse impostazioni e sensibilità storico artistiche (e politiche), gli interventi di restauro scontano, in Italia, una più rigorosa disciplina da un punto di vista legale.

Le opere d’arte infatti beneficiano, a seconda del tipo di bene, della tutela prevista per le opere dell’ingegno di carattere creativo, contemplata dalla legge sul diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633 e succ. mod.; di seguito, la “Legge Autore”), e/o di quella accordata ai beni culturali dal codice dei beni culturali e del paesaggio (d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e succ. mod.; di seguito il “Codice Beni Culturali”); oltre, ovviamente, alle norme più generali previste dal codice civile.

 

La disciplina dell’arte contemporanea

 

Le opere d’arte contemporanea spesso sono composte da materiali deperibili e/o gli stessi supporti sono soggetti a rapida obsolescenza: si pensi alle opere di video arte realizzate su supporti magnetici che, se non riversati su dvd o pc, diventa difficile poter continuare a proiettare.

In alcuni casi le opere sono poi volutamente effimere, in quanto rimesse alla natura e alla benevolenza del tempo, come le opere di street art (tra i più noti, Banksy) e a quelle di land art (si pensi alla Cattedrale Vegetale di Giuliano Mauri a Lodi).

Di norma, la Legge Autore tutela la volontà dell’artista; l’art. 20 prevede, infatti, che indipendentemente dai diritti esclusivi di utilizzazione economica dell’opera, che possono essere ceduti o concessi a terzi, e anche dopo avere disposto dei diritti economici, “l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e – per quanto rileva, sempre – di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione[1].

Prima di procedere ad un restauro di tali opere occorre pertanto indagare, di volta in volta, la volontà dell’artista. Le modifiche che alterino l’opera per come è stata concepita, ad esempio per il diverso supporto, così come quelle volte a prolungare la vita di una opera pensata come temporanea, ad esempio apponendo una teca ad un murale di street art, potrebbero comportare un pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’autore (e, financo, il risarcimento dei danni eventualmente patiti da quest’ultimo).

È discusso però se l’autore dell’opera possa imporre al proprietario obblighi di custodia, come quello di restaurare opere degradate. In senso affermativo, in giurisprudenza è stato ritenuto che “può in astratto configurarsi una violazione del diritto morale dell’autore di un dipinto ex art. 20 l.a. anche nel caso di degrado dell’opera in conseguenza del trascorrere del tempo insieme al concorso di altri specifici fattori negativi imputabili al detentore, quali ad esempio un atto omissivo qual è l’omissione del restauro del dipinto, considerato che superato il limite del decadimento naturale il degrado potrebbe causare una lesione all’integrità dell’opera d’arte figurativa ed influenzare negativamente la percezione dell’opera presso il pubblico e costituire quindi una lesione della reputazione dell’artista” (Trib. Milano, 20.01.2005). La sentenza è rimasta tuttavia sostanzialmente isolata.

 

La disciplina dei beni culturali

 

I beni pubblici che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico e tutti quelli, anche privati, per i quali sia intervenuta una dichiarazione di interesse culturale, sono soggetti alle norme previste dal Codice Beni Culturali, volte a proteggere e valorizzare il nostro ingente patrimonio artistico; di massima restano escluse da questa disciplina le opere di autore vivente e (salvo specifiche eccezioni) quelle la cui esecuzione non risalga ad oltre settant’anni.

Il codice prescrive che tali opere siano conservate, intendendo l’attività di conservazione come “una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro”, quest’ultimo definito come “l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali” (art. 29 Codice Beni Culturali).

Le linee di indirizzo, le norme tecniche, i criteri e i modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali sono definiti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (di seguito, il “Ministero”), anche con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti; gli interventi di restauro su beni culturali devono essere devoluti a restauratori specializzati.

I privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono espressamente tenuti a garantirne la conservazione ma eventuali restauri e altri interventi conservativi su beni culturali ad iniziativa di questi ultimi devono essere autorizzati dal Ministero e, in sede di autorizzazione, il soprintendente preposto si pronuncia, a richiesta dell’interessato, sull’eventuale ammissibilità dell’intervento ai contributi statali.

Il Ministero può sempre imporre al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo, gli interventi necessari per assicurare la conservazione dei beni culturali, ovvero provvedervi direttamente; anche gli oneri per gli interventi su beni culturali, imposti o eseguiti direttamente dal Ministero, sono a carico del proprietario, possessore o detentore; tuttavia, se gli interventi sono di particolare rilevanza ovvero sono eseguiti su beni in uso o godimento pubblico, il Ministero può concorrere in tutto o in parte alla relativa spesa (di norma per un ammontare non superiore alla metà della stessa. Se gli interventi sono di particolare rilevanza o riguardano beni in uso o godimento pubblico, il Ministero può concorrere alla spesa fino al suo intero ammontare).

I beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero e i singoli proprietari.

Interventi di restauro troppo “invasivi” potrebbero addirittura alterare l’identità del bene, rendendolo così “diverso” da quello originale, e concretizzare una ipotesi di contraffazione vietata dall’art. 178 Codice Beni Culturali.

 

Conclusioni

 

I restauri devono essere condotti in modo puntuale e corretto, non solo dal punto di vista storico e filologico, ma anche da quello legale, nel rispetto delle prescrizioni sul bene – se si tratta di un bene culturale vincolato dal Codice – e dei diritti morali dell’artista – se è un’opera ancora soggetta alla Legge Autore.

Il collezionista, pertanto, per prevenire eventuali contestazioni, dovrebbe sempre condurre gli interventi di restauro nel rispetto della normativa e della volontà dell’artista (con il quale, se possibile, è sempre opportuno definire condizioni e limiti degli interventi tramite la stipulazione di specifici accordi).

[1]Tuttavia nelle opere dell’architettura l’autore non può opporsi alle modificazioni che si rendessero necessarie nel corso della realizzazione. Del pari non potrà opporsi a quelle altre modificazioni che si rendesse necessario apportare all’opera già realizzata. Però se all’opera sia riconosciuta dalla competente autorità statale importante carattere artistico spetteranno all’autore lo studio e l’attuazione di tali modificazioni” (così sempre la definizione prevista dall’art. 20).

Gilberto Cavagna di Gualdana
Gilberto Cavagna di Gualdanahttps://www.bipartlaw.com/
Gilberto Cavagna di Gualdana è avvocato cassazionista specializzato in diritto della proprietà industriale e intellettuale, con particolare attenzione al diritto dell’arte e dei beni culturali.
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