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Sistema dell’arte: il ruolo dei musei

del

Dopo aver analizzato il mondo delle case d’asta e delle gallerie, e aver discusso sul ruolo di critici e curatori, proseguiamo il nostro cammino attraverso il Sistema dell’arte contemporanea con i Musei. Se avete letto, qualche volta, un comunicato stampa lanciato da una Casa d’Aste, vi sarete sicuramente imbattuti nella frase “di qualità museale”. E’ questo, infatti, il modo più comune utilizzato dal mercato per sottolineare l’importanza di una determinata opera inserita in catalogo, a sottolineare come il Museo ricopra un ruolo fondamentale nel percorso di accreditamento di un artista all’interno del Sistema dell’Arte: se un’opera è degna di essere esposta, se non addirittura acquisita, da un Museo di arte contemporanea, significa che è importante e, quindi, caratterizzata da un alto valore culturale e economico con un riflesso diretto sia sulla carriera (e quindi sul successo) di un artista, sia sul suo mercato.

Quando all’inizio del 2012 il MoMa di New York ha dedicato un’importante retrospettiva a Cindy Sherman, ad esempio, le quotazioni della fotografa americana sono letteralmente lievitate, tanto che nel marzo dello stesso anno (un mese dopo l’inaugurazione della mostra, ndr) il suo Untitled Film Still #21 del 1978, inserito in catalogo da Sotheby’s con una stima tra i 120 e i 200 mila dollari, è stato battuto per la bellezza di oltre 746mila dollari. Questo tanto per darvi un’idea del peso che le istituzioni museali hanno nella vita di un artista. Non è un caso, d’altronde, che premi come l’Illy Present Future, che ogni anno viene assegnato ad un giovane artista in occasione di Artissima, dia al vincitore l’opportunità di una personale al Castello di Rivoli, una delle istituzioni più prestigiose del nostro paese.

Il MoMa di New York
Il MoMa di New York

Questo ruolo di tappa obbligata nel percorso di affermazione di un artista è spesso poco conosciuto dal grande pubblico. Anzi, molto spesso, quando un normale visitatore entra in un museo, ignora, addirittura, di aver messo piede nel Sistema dell’Arte, sempre che sia a conoscenza della sua esistenza. Ma da cosa nasce tanta importanza? Principalmente dal ruolo che la tradizione attribuisce ai Musei come custodi della storia e della cultura e, in seconda battuta, all’indipendenza con cui svolgono questo ruolo e che li rende, nell’immaginario collettivo, degli arbitri super partes che aprono le loro porte solo ai tesori della nostra collettività. La venerazione per i Musei è tale che a quasi nessuno verrebbe in mente di mettere in dubbio la loro autorevolezza e, passatemi il termine, la loro infallibilità nel giudizio di cosa fare entrare nella propria collezione. Pensate all’aura di sacralità che avvolge alcune nostre istituzioni come i Musei Vaticani o gli Uffizi, con centinaia di “pellegrini” che ogni giorno sopportano code infinite per andare a vedere, “dal vivo”, quei capolavori eterni che hanno visto sui libri di storia dell’arte. E con i musei del’arte contemporanea vale lo stesso discorso?

In parte sì, nel senso che anche questi si avvantaggiano, giustamente, della reputazione dell’istituzione “Museo”. In parte no, perché il museo di arte contemporanea (che già di per sé è un po’ una contraddizione in termini) vive nel presente e, per ovvi motivi, deve derogare a quella che è una delle caratteristiche principali del Museo: conservare le opere d’arte che hanno superato la prova del tempo. E a questo ruolo si conformava il modello classico dell’istituzione museale fin dal XVIII secolo. E poi? Poi, nel 1929 è arrivato il MoMa di Alfred H. Barr Junior che, di fatto, ha scompaginato un po’ la situazione, allargando il campo d’azione del museo, che iniziava a guardare anche al presente contribuendo, in questo modo, alla storicizzazione dell’arte contemporanea. Da qui inizia un cammino, e un’evoluzione, tuttora in corso, che ad aspetti decisamente positivi (si pensi all’effetto Guggenheim a Bilbao), affianca alcune zone d’ombra che sono, tuttora, oggetto di accesi dibattiti.

Il Museo di arte contemporanea, a differenza dei suoi colleghi, infatti, si trova nella difficile posizione di chi deve trovare un equilibrio tra l’essere santuario e, allo stesso tempo, laboratorio del contemporaneo. La questione è delicata, in particolare perché in gioco c’è quello che è uno dei caratteri imprescindibili dell’istituzione museale, ossia la sua indipendenza dalle tante pressioni che vengono dall’esterno: mercato, curatori, grandi collezionisti. Solo mantenendosi indipendente, infatti, il Museo può continuare ad avere un ruolo cruciale nella valutazione e nel riconoscimento di un artista, partecipando, in questo modo, alla scrittura di quella storia che, fino a pochi decenni fa, era chiamato solo a custodire.

Il Centre Pompidou di Parigi
Il Centre Pompidou di Parigi

Per capire meglio quello che intendo, pensate che una volta, per entrare in una collezione museale, un’opera doveva avere almeno trenta o quarant’anni e questo per un motivo molto semplice: evitare di rappresentare le mode del momento a favore dell’importanza storica di un’opera d’arte. Come ha sottolineato Chrissie Iles, curatrice del Whitney Museum di New York, infatti, «per un curatore di museo un pezzo che vale milioni di dollari può essere importante quanto uno che ne vale un milione, in termini di valore artistico, perché prende in considerazione i meriti di un’opera d’arte, e non il suo valore monetario. Oggi il mercato può essere febbrile ma, quando la temperatura scende, l’unica cosa che resta è l’opera, quindi dobbiamo giudicare il lavoro separandolo dal mercato, dai suoi personaggi e dalla sua scena».

Oggi, in particolare nei principali musei internazionali (MoMa, Guggenheim ecc.) le cose sono radicalmente diverse e al giudizio del tempo si preferisce, molto spesso, quello del curatore di grido se non, addirittura, quello del grande collezionista o del gallerista di Brand. In questo modo vengono acquistati lavori appena creati, conferendo però all’artista quello stesso riconoscimento che, una volta, veniva dato dopo diversi decenni. Rimanere super partes non è certo facile: annoverare in collezione le opere di artisti di moda, spesso, equivale ad un maggior appeal dal punto di vista del pubblico e dei finanziatori e tutti noi conosciamo il bisogno costante di fondi delle istituzioni museali. Detto questo, però, il gioco è rischioso, perché alla lunga potrebbe mettere a repentaglio la reputazione dell’Istituzione: che credibilità può avere, in termini di criteri valutativi, un museo che ha in collezione le stesse opere esposte nelle gallerie di brand presenti nello stesso quartiere?

Eppure, questa è la deriva che molti grandi musei internazionali stanno prendendo per attirare finanziatori e battere la concorrenza delle istituzioni rivali che, a ritmo sempre più serrato, aprono in tutto il mondo. E questo con tutto quello che ne consegue in termini di quotazioni “falsate” e di connivenze tra i piani alti dei principali musei del mondo e il mercato: una grande retrospettiva dedicata ad un artista che si apre poche settimane prima di un’asta dove, guarda caso, sono in catalogo varie opere dello stesso autore, difficilmente può essere considerata frutto del fato e molto più facilmente figlia di quello che, in altri settori economici sarebbe bollato come insider trading, ossia il reato di abuso di informazioni privilegiate. Solo che nel mondo dell’arte questo reato non è contemplato. Ovviamente si tratta solo di sospetti – seppur supportati da una cospicua pubblicistica –, ma cosa si deve pensare quando si viene a sapere che il Guggenheim ha acquistato, ancor prima che finisse i suoi studi all’Hunter College di New York, un’opera dell’artista Alison Fox dietro consiglio del collezionista Charles Saatchi che, per l’appunto, aveva appena inserito in collezione tre opere dello stesso?

Il Maxxi di Roma
Il Maxxi di Roma

Con questo non è mia intenzione demonizzare il Museo d’arte contemporanea – non ne avrei motivo – ma mettere in guardia da un mal costume che, per quanto riferibile solo a determinate istituzioni, è molto rischioso in ottica futura perché, come ha detto l’ex direttore del Museo Ludwig di Colonia e curatore di quella che sarà Manifesta 2014, Kaspar König: «Un museo ha bisogno di un distacco storico. Non è un atelier. E’ un luogo formale di presentazione formale, in cui si è sempre consapevoli di trovarsi in un museo. Mostrare l’arte è un momento di grande responsabilità, in cui si dichiara di prendere qualcosa sul serio». Per questo, in un momento di passaggio come quello che sta vivendo il Sistema dell’Arte, alla prova della globalizzazione, è fondamentale che il museo d’arte contemporanea, pur avendo alla base una concezione diversa da quella tradizionalmente attribuita a questo tipo di istituzioni, riesca ad integrare due ruoli fondamentali: rimanere un’istituzione indipendente e, allo stesso tempo, essere sede di un nuovo dibattito culturale, evitando di cedere alle tentazioni.

Nicola Maggi
Nicola Maggi
Giornalista professionista e storico della critica d'arte, Nicola Maggi (n. 1975) è l'ideatore e fondatore di Collezione da Tiffany il primo blog italiano dedicato al mercato e al collezionismo d’arte contemporanea. In passato ha collaborato con varie testate di settore per le quali si è occupato di mercato dell'arte e di economia della cultura. Nel 2019 e 2020 ha collaborato al Report “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione” di Deloitte Private. Autore di vari saggi su arte e critica in Italia tra Ottocento e Novecento, ha recentemente pubblicato la guida “Comprare arte” dedicata a chi vuole iniziare a collezionare.
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