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Sognando Vermeer. Come la diagnostica può aiutare a studiare le opere d’arte

del

Pur essendo un piccolo paese, l’Olanda ha raggiunto vette incredibili in molti campi.

Riflettevo di ciò leggendo l’autobiografia di Johan Cruijff, il mitico calciatore oranje che, negli anni ‘70, fu il perno del calcio totale (Capillare copertura della zona di gioco, pressing serrato sull’avversario, costruzione dell’azione dal basso per la quale a tutti e gli undici giocatori in campo, portiere compreso, erano richieste abilità tecniche superiori; la cooperazione all’interno del gruppo, poi, era il valore aggiunto) espresso dai club e dalla nazionale olandesi. Un calcio giocato con il cervello ancor prima che con i piedi, fatto di calcolo e previsione, come dice Cruijff che probabilmente, in un’altra carriera, avrebbe potuto essere un buon matematico.

L’osservazione della realtà con occhio scientifico, del resto, è prerogativa anche della pittura di quel popolo: nature morte rigogliose e interni domestici squisitamente privati sono i soggetti che in genere vengono alla mente più facilmente quando si pensa ai dipinti provenienti da quelle terre di commercianti dove nacquero, secondo Max Weber, il capitalismo e pure la sua prima bolla speculativa (la celebre bolla dei tulipani scoppiata sul mercato olandese nel febbraio del 1637).

Questa necessità di riportare con precisione la realtà nella sua dimensione più intima si trova anche nei dipinti di Jan Vermeer, i quali sovente ritraggono scene di vita quotidiana dentro stanze illuminate dalla cristallina luce del nord che entra dalle finestre. Ogni cosa è ripresa nel dettaglio più minimo e prezioso: arazzi, tessuti, mappe, dipinti sulle pareti, perle, gioielli, strumenti di lavoro sparsi sul tavolo.

Una piccola anomalia a questo schema rappresentativo è il dipinto Mistress and Maid della Frick Collection, nel quale Vermeer ritrae un serva mentre consegna alla sua signora la lettera di un misterioso amante, inquadrando la scena davanti a un insolito sfondo scuro e spoglio. Un particolare, quest’ultimo, inconsueto per la produzione dell’olandese, che ha sollevato per molto tempo il dubbio che l’opera fosse incompiuta o, meglio, realizzata nella scena principale dal maestro di Delft e portata a termine da una mano diversa.

Un dubbio che, dopo recenti studi, sembra aver trovato una soluzione grazie alle indagini diagnostiche svolte dai laboratori del Metropolitan Museum di New York in collaborazione con il Doerner Institut di Monaco di Baviera.

Utilizzando la tecnica della riflettografia infrarossa (la riflettografia infrarossa una tecnica non invasiva, che non danneggia le opere e che consente di rivelare gli strati sottostanti di pitture su tela, tavola o carta, in modo da visualizzare l’eventuale presenza di disegni preparatori o restauri successivi), si è infatti scoperto che, al di sotto della superficie pittorica a noi visibile, è abbozzato il disegno di altre quattro figure umane. Il curatore della Frick ha supposto che Vermeer, temendo di creare troppa confusione nell’immagine, abbia deciso di non proseguire il disegno abbozzato delle figure umane e optato per la soluzione dello sfondo scuro.

Se non fosse che quello sfondo, in origine, non era affatto scuro, bensì di un meraviglioso color verde smeraldo, come ha dimostrato la spettrofotometria XRF (la X-ray fluorescence spectroscopy è  una tecnica di analisi non distruttiva che permette di conoscere la composizione elementale di un campione attraverso lo studio della radiazione di fluorescenza X.) , una tecnica diagnostica che permette, bombardando con radiazioni un campione di materiale, di individuarne l’elemento costitutivo principale, in questo caso, pigmento verde a base di acetato di rame, comunemente noto come verderame e tristemente conosciuto per ossidare e inscurire in maniera irreversibile.

Ma chi ci dice che lo sfondo non possa effettivamente essere posticcio rispetto alle bellissime figure in primo piano? Semplice: altre analisi al microscopio che hanno osservato come certi particolari di rifinitura fossero nettamente dipinti al di sopra di questo sfondo inscurito. Particolari troppo belli per essere attribuiti a una mano diversa da quella del maestro.

Insomma, ancora una volta, è la scienza a venire in soccorso alla storia dell’arte, entrando letteralmente nella materia costitutiva dell’opera per scoprirne storie e segreti. Per poter fare ciò, restauratori e conservatori utilizzano le tecniche diagnostiche, esattamente come un medico farebbe sul corpo di un paziente. E, in effetti, molte di queste tecniche sono mutuate direttamente dalla medicina.

Ricordo con meraviglia e stupore quella volta in cui un esperto di diagnostica mi mostrò la sua macchina per le radiografie, un vecchio arnese pesante e poco maneggevole che aveva un tempo servito il reparto medico dell’esercito, utilizzato per rilevare possibili fratture ossee dei soldati. Ora era al servizio dell’arte, utilizzato per bombardare con un raggio fotonico i dipinti e vederne gli strati nascosti: giunture delle tavole, preparazioni, mestiche della tela, certi pigmenti pesanti a base di piombo utilizzati nell’impasto pittorico.

Un bel viaggio. Un punto di vista diverso da cui guardare l’arte, con il quale anche il collezionista può scoprire segreti della propria collezione che nemmeno sapeva esistere.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.
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